Sorpresa diplomatica dal fronte mediorientale: Tony Blair, l’ex premier britannico macchiato dall’Iraq e fedelissimo di Washington, è pronto a indossare i panni di proconsole a Gaza. Con la benedizione della Casa Bianca, guiderà per cinque anni la Gaza International Transitional Authority, un’entità ONU che assumerà il controllo totale della Striscia devastata, puntando a una ricostruzione epica sul modello del Kosovo e di Timor Est – un piano che unisce task force arabe e ambizioni di pace, ma già infiamma polemiche globali.
Il progetto, emerso da indiscrezioni su Haaretz e The Times of Israel, assegna a Blair il ruolo di “suprema autorità politica e giuridica” sulla Striscia, post-conflitto. La sede operativa partirà da Al-Arish, capoluogo egiziano al confine sud di Gaza, per spostarsi poi all’interno della Striscia, protetta da una task force multinazionale ONU a prevalenza araba.
L’ambizione ultima? Unificare Gaza sotto l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), scartando scenari di espulsione di massa come quelli ventilati in passato dagli USA per una “Riviera di Gaza”. Washington benedice l’iniziativa, ma tiene l’ANP ai margini iniziali: Blair presiederà un segretariato snello di 25 persone e un consiglio ristretto di sette membri, che veglierà su un esecutivo dedicato alla gestione quotidiana.
La designazione dell’ex laburista, fuori da Downing Street dal 2007, scatena un turbine di critiche. Inviato per il Medio Oriente fino al 2015, Blair vanta stima nei palazzi del Golfo, ma in Palestina è un paria per il suo endorsement all’invasione USA in Iraq nel 2003. Diplomatici d’Occidente frenano: la sua guida non è blindata, e il mandato potrebbe accorciarsi a due anni. Il piano stride con la Dichiarazione di New York, ratificata dall’Assemblea ONU da 140 nazioni: lì si parla di un interim di soli 12 mesi, con poteri ceduti a un’ANP rinnovata – nuova Costituzione, presidente e parlamento in pole position.
Per la Casa Bianca, è un ibrido tra la visione trumpiana di dominio USA-Israele e la via ONU, vincolato a tregua e liberazione degli ostaggi del 7 ottobre 2023. Il board della GITA? Un mix eterogeneo: un palestinese minimo, un big dell’ONU, guru internazionali di finanza e management, più un robusto contingente musulmano. Cinque commissari piloteranno i pilastri: umanitario, ricostruzione, leggi e sicurezza. Quello per gli aiuti coordinerà con agenzie globali contro fame e macerie della guerra.
La fuga di notizie arriva a ridosso del summit newyorkese: Trump ha radunato l’emiro qatariota Tamim bin Hamad al-Thani, il ministro saudita Faisal bin Farhan Al Saud, il re giordano Abdullah II, l’indonesiano Prabowo Subianto e il turco Recep Tayyip Erdoğan. “Un trionfo”, tuona il tycoon: “Siamo a un passo dall’accordo che ripatrirà gli ostaggi e chiuderà il capitolo bellico”. Gli arabi pongono paletti: forniranno truppe per la pace ONU solo con una road map netta per lo Stato palestinese.
Netanyahu sorride all’ombra di Blair, ma la vaghezza sul timing per l’ANP irrita palestinesi e vicini. Il blueprint nasce da colloqui tra Blair, l’inviato USA Steve Witkoff e Jared Kushner, con il Tony Blair Institute a spingere per il sigillo ONU. Niente più “trasferimenti” forzati, come nei sogni di Trump: Blair ha imposto garanzie contro lo sradicamento dei sopravvissuti, in gran parte sfollati tra le rovine. Eppure, i discorsi di Netanyahu al Palazzo di Vetro gelano gli entusiasmi: l’unione con Cisgiordania in uno Stato palestinese evoca Kosovo o Timor Est, ma resta un miraggio remoto, eco dei mandati britannici d’un tempo.