APERTURA

Trump: “Ucraina e Russia mai così vicine alla pace”. Ma il Cremlino alza la posta sul Donbass

La residenza dorata di Donald Trump di Mar-a-Lago, in Florida, si trasforma nell’epicentro della diplomazia mondiale. Il presidente americano esce dall’incontro con Volodymyr Zelensky e dal colloquio telefonico con Vladimir Putin con una dichiarazione che fa tremare le cancellerie: “Ucraina e Russia sono più vicine che mai a un accordo di pace”. Eppure, l’ottimismo del tycoon si infrange subito contro il muro della realtà. “Tra qualche settimana, lo sapremo in un modo o nell’altro”, aggiunge Trump, frenando ogni entusiasmo eccessivo. Restano sul tavolo “una o due questioni spinose”, ha ammesso. Prima fra tutte, il Donbass.

È un valzer diplomatico delicatissimo, quello che si sta consumando tra Washington, Kiev e Mosca. Trump si muove da mediatore deciso ma consapevole delle difficoltà. Zelensky cerca garanzie concrete per il futuro della sua nazione martoriata. Putin, dal Cremlino, detta condizioni che suonano come ultimatum. Il risultato è un negoziato che avanza a piccoli passi, tra speranze fragili e minacce nemmeno troppo velate.

L’incontro nella tenuta della Florida è stato definito “eccellente” da entrambi i protagonisti. Zelensky ha confermato di aver discusso “tutti gli aspetti” del piano di pace in venti punti, ormai completo “al novanta per cento”. Sul tavolo, le garanzie di sicurezza e la dimensione militare, su cui Stati Uniti e Ucraina avrebbero raggiunto un’intesa “al cento per cento”. Una “pietra miliare fondamentale per raggiungere una pace duratura”, nelle parole del presidente ucraino.

Garanzie di sicurezza per quindici o cinquant’anni: il nodo della durata

Ma il diavolo, come sempre, si nasconde nei dettagli. Zelensky ha rivelato un elemento cruciale che potrebbe rappresentare uno degli ostacoli più insidiosi: Washington propone garanzie di sicurezza per quindici anni, mentre Kiev chiede un impegno su cinquant’anni per scoraggiare future aggressioni russe. Non è una questione di lana caprina. Per l’Ucraina, si tratta di evitare che tra una generazione Putin o un suo successore possano ripetere l’invasione del 2022. Per gli Stati Uniti, vincolarsi per mezzo secolo in un’area così instabile significa assumere responsabilità enormi di fronte al Congresso e all’opinione pubblica americana.
Il presidente ucraino ha ribadito con fermezza che “senza garanzie di sicurezza realistiche, questa guerra non finirà”.

Il piano in venti punti dovrà essere approvato con un referendum nazionale, ma per organizzare la consultazione servirebbe un cessate il fuoco di sessanta giorni. Putin, dal canto suo, ha ipotizzato una breve tregua solo in caso di elezioni presidenziali in Ucraina, una concessione che suona più come una mossa tattica che come un’apertura sincera. I team negoziali di Ucraina e Stati Uniti si incontreranno “già la prossima settimana” per definire le questioni ancora aperte. Un appuntamento che tutti seguiranno con attenzione, perché potrebbe segnare una svolta o rivelare l’impossibilità di colmare il divario tra le posizioni.

L’Europa si mobilita: Von der Leyen e Macron in prima linea

Anche l’Europa vuole dire la sua. Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha parlato di “nuovi progressi” dopo l’incontro in Florida, a cui hanno partecipato in videochiamata i leader europei per circa un’ora. “L’Europa è pronta a continuare a collaborare con l’Ucraina e gli Stati Uniti per consolidare questi progressi”, ha dichiarato, sottolineando che è “fondamentale avere garanzie di sicurezza ferree fin dal primo giorno”.

Emmanuel Macron, mai secondo a nessuno quando si tratta di diplomazia di alto profilo, ha annunciato un vertice a Parigi all’inizio di gennaio per definire i contributi concreti degli alleati al piano di sicurezza. Il presidente francese sa bene che l’Europa non può permettersi di restare ai margini di un accordo che ridisegnerà gli equilibri del continente per i decenni a venire.

Il Cremlino rivendica il ritiro ucraino dal Donbass e non solo

Mosca, però, non sembra intenzionata a facilitare il percorso. Il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov ha ribadito la posizione massimalista con una durezza che non lascia spazio a interpretazioni: “Se Kiev vuole la pace, deve ritirare le truppe dal Donbass”. E ha alzato ulteriormente la posta, confermando che “si parla del ritiro delle forze del regime ucraino dal Donbass”, senza escludere che la richiesta possa estendersi alle regioni di Zaporizhzhia e Kherson, attualmente parzialmente occupate dalla Russia.

“Se Kiev non firmerà un accordo, la situazione peggiorerà”, ha avvertito Peskov, citando indirettamente le parole di Trump secondo cui “l’Ucraina potrebbe perdere altri territori nei prossimi mesi”. È una minaccia nemmeno troppo velata: firmate alle nostre condizioni o preparatevi a perdere ancora di più. Il Cremlino ha evitato di commentare ipotesi su zone economiche speciali nel Donbass o sul futuro della centrale nucleare di Zaporizhzhia, liquidando il tema come “inopportuno”. Peskov ha confermato che Putin e Trump si consulteranno “a breve”, ma nessun dialogo diretto è previsto con Zelensky. Un dettaglio che la dice lunga sulla volontà russa di trattare direttamente con Washington, considerando Kiev come un interlocutore di secondo piano

Il controllo russo su un quinto dell’Ucraina

La Russia controlla attualmente un quinto del territorio ucraino: la Crimea annessa nel 2014, il novanta per cento del Donbass, il settantacinque per cento delle regioni di Zaporizhzhia e Kherson, oltre a porzioni di Kharkiv, Sumy, Mykolaiv e Dnipropetrovsk. Una presenza militare massiccia che rappresenta la principale carta da giocare per Putin al tavolo dei negoziati.

Secondo molti analisti, anche vicini al Cremlino, Putin sarebbe pronto a restituire i territori fuori dal Donbass e dalle regioni di Zaporizhzhia e Kherson, ma non vi è alcuna possibilità di compromesso sulle quattro regioni dichiarate parte integrante della Federazione russa. Per Mosca, tornare indietro su questo punto significherebbe ammettere una sconfitta politica inaccettabile.

I tre nodi irrisolti che frenano i negoziati

I negoziati restano bloccati su tre questioni chiave: i territori occupati dalla Russia, lo status legale di questi territori nel dopoguerra e la presenza di truppe straniere per monitorare il cessate il fuoco. Sono nodi gordiani che nessuno, al momento, sembra in grado di sciogliere. Trump ha ammesso candidamente che un accordo “potrebbe non arrivare”, pur ribadendo la sua determinazione con la frase che più gli appartiene: “Sapete qual è la mia scadenza? Porre fine alla guerra”. Il presidente americano ha riconosciuto la “difficoltà” delle trattative, ma non ha voluto fissare date precise quando sollecitato dalla stampa.

Una cautela insolita per un leader che ha sempre amato le promesse roboanti e i risultati immediati. Zelensky ha precisato che le garanzie dovranno essere ratificate dal Congresso americano e dai parlamenti degli altri Paesi coinvolti. Un processo lungo e complesso, che potrebbe richiedere mesi. Il Donbass resta “certamente uno dei problemi più grossi”, ha ammesso Trump. Zelensky, dal canto suo, ha ribadito di voler indire un referendum su un’eventuale cessione di “una terra che non appartiene a una sola persona”.

Le prossime settimane saranno decisive

La partita si gioca ora su due fronti paralleli: quello diplomatico, con gli incontri tra i team negoziali, e quello dell’opinione pubblica, con Zelensky che dovrà convincere gli ucraini ad accettare compromessi dolorosi e Putin che dovrà vendere al popolo russo un accordo che non rappresenta la vittoria totale promessa all’inizio dell’invasione.

Trump si trova nel mezzo, con la responsabilità di mediare tra due visioni inconciliabili e la consapevolezza che il fallimento potrebbe significare altri anni di guerra. “Tra qualche settimana, lo sapremo in un modo o nell’altro”, ha detto. È una previsione o un ultimatum? Probabilmente entrambe le cose. Intanto, il mondo trattiene il fiato.

Pubblicato da
Maurizio Balistreri