Politica

La “più grande riforma” fiscale fa primo passo. Trump esulta, ma strada ancora lunga

Il Senato e la Camera degli Stati Uniti hanno approvato entrambi una propria risoluzione sul budget per l’anno fiscale 2018, aprendo la strada alla controversa riforma fiscale voluta dal presidente Donald Trump. Saranno ancora necessari diversi passaggi, ma la speranza dei repubblicani è di far firmare a Trump la riforma fiscale alla fine dell’anno. Una riforma che il presidente ha presentato come “il più grande taglio delle tasse nella storia del Paese”, promettendo di aiutare la classe media, di rendere gli Stati Uniti più competitivi a livello internazionale e di creare una crescita economica senza precedenti negli anni a venire. Prima di tutto, i repubblicani dovranno approvare il budget, perché solo così potranno usare il ‘budget reconciliation’, ovvero la ‘scappatoia’ che permette al Congresso di approvare le proposte di legge su temi finanziari con la maggioranza semplice (51 voti in Senato e 218 alla Camera), evitando l’ostruzionismo della minoranza. La risoluzione sul budget è un accordo non vincolante che stabilisce le ‘istruzioni’ per la riforma fiscale, che tecnicamente potrà essere approvata entro la fine del prossimo anno fiscale, ovvero il 30 settembre 2018, anche se l’obiettivo, come detto, è quello di farlo entro la fine del 2017.

Le due Camere dovranno quindi accordarsi su un documento finale sul budget, ma ci sono due grosse differenze tra i testi. La risoluzione del Senato dà il via libera a tagli alle tasse che provocherebbero un aumento del deficit di 1.500 miliardi di dollari in un decennio; la versione della Camera, invece, prevede l’aumento del deficit di soli 2,5 miliardi. La seconda è che il budget della Camera fa spazio a tagli fiscali solo con la riduzione delle spese per 203 miliardi di dollari, mentre il Senato prevede, come unica misura per sostenere il minor gettito fiscale, l’apertura di un parco naturale dell’Alaska all’estrazione petrolifera, per generare nuove entrate. Secondo il Wall Street Journal, si tratta di differenze per cui potrebbero essere necessarie un paio di settimane di negoziazioni, ma senatori e deputati stanno lavorando a un accordo che porti la Camera ad approvare il budget del Senato la prossima settimana, senza una formale commissione Camera-Senato, solitamente necessaria per mediare tra le diverse posizioni delle due Aule. La risoluzione sul budget non ha bisogno della firma del presidente. Il deputato repubblicano Kevin Brady, che guida la commissione responsabile della riforma fiscale, ha detto che, una volta che il budget sarà approvato definitivamente, renderà pubblica la proposta di legge, che i repubblicani hanno presentato a grandi linee a settembre e che prevede per esempio di ridurre l’aliquota per le aziende dal 35 al 20 per cento.

Non mancano però le divergenze, all’interno del partito repubblicano, su aliquote e sgravi fiscali; una volta approvata dalla commissione (24 membri su 40 sono repubblicani), sarà l’Aula al completo (240 deputati su 435 sono repubblicani) a dover votare. Secondo lo speaker della Camera, Paul Ryan, la Camera potrebbe approvare la riforma fiscale a novembre, entro il giorno del Ringraziamento (23 novembre). La commissione Finanza del Senato, invece, lavorerà alla propria riforma. In commissione, i repubblicani hanno solo 14 membri su 26: questo significa che dovranno trovare il modo di mettere tutti d’accordo. In Aula, invece, i repubblicani potranno permettersi due defezioni, visto che sono 52 e che, in caso di parità a 50, voterebbe il vicepresidente Mike Pence per rompere l’equilibrio. L’obiettivo è approvare il piano all’inizio di dicembre. Una volta che le due Aule avranno approvato entrambe la propria riforma fiscale, dovranno appianare le differenze, presumibilmente in una commissione Camera-Senato. A quel punto, Camera e Senato voteranno di nuovo: se approvata, la riforma finirà sulla scrivania di Donald Trump, per la firma. Per l’ultima grande riforma fiscale, quella del 1986, furono necessari 11 mesi dalla sua introduzione alla firma presidenziale, ricorda il New York Times.

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