ll Gotterdammerung, uomini e dei nel baratro. Palermo applaude Graham Vick

ll Gotterdammerung, uomini e dei nel baratro. Palermo applaude Graham Vick
2 febbraio 2016

di Laura Donato

La razza umana contiene in se il germe dell’autodistruzione. Nessun dio e nessun eroe potranno salvarla da se stessa. Nessuna redenzione. Nessuna salvezza. Nessun dio o eroe che si sacrifica per essa. Messaggio duro quello che Graham Vick lancia al termine del Gotterdammerung, Il Crepuscolo degli dei, di Wagner prodotto per il Teatro Massimo di Palermo, con una schiera di mimi pronti a farsi esplodere grazie alle cinture di dinamite che hanno attorno alla vita. Il led rosso lampeggiante che avvisa dell’esplosione non diventa verde, né si spegne, viene solo ricoperto. L’avviso è stato lanciato. E’ lì rimasto a covare sino a quando qualcuno, l’essere umano, non deciderà di spegnerlo o azionarlo portando così alla fine della sua razza. Vick conclude così, lasciando la scelta all’uomo, all’essere dotato di ragione, ciò di cui neanche gli dei o gli eroi hanno la facoltà di cambiare, incarnando perfettamente il disprezzo verso l’umanità che lo stesso Wagner ha sempre provato. Più che al Crepuscolo degli dei si è assistito al Crepuscolo dell’uomo che invece di sfruttare la ratio concessagli è andato a perdersi nel degrado più assoluto. Ecco così che il Gotterdammerung rappresenta la summa del percorso distruttore e creatore operato dal regista anglosassone: il degrado con cui vengono descritti gli uomini/animali/selvaggina preda della superiore razza divina, dedita tuttavia ai vizi più turpi e bassi –  dalla violenza, alla droga, alla lussuria (come nella migliore tradizione umano/divina) – e incapace lei stessa di evitare la propria fine; l’innocenza dell’eroe Siegfried a rasenta una stolidità, che nulla a che fare con l’eroismo puro e senza macchia della mitologia classica e che lo rende facile preda, anch’egli, di menti più smaliziate e dei raggiri di Hagen.

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Vick affonda, a volte anche esagerando violenze e immagini di degrado umano gratuite, il coltello nella piaga umana: la vera vittima, infatti, indicata dallo stesso Wagner in tutto il suo Ring come filo conduttore e, perché no, Deus ex machina di tutta la vicenda, non è tanto la razza umana o la razza divina da essa creata, quanto l’Amore. L’Amore sacrificato al potere, al denaro, al piacere. L’Amore vero che la Valchiria Brunilde è stata costretta a provare e a causa del quale decide di seguire l’amato sulla pira funebre, morendo con lui. Ma la pira non si accende. Il fuoco non brucia purificando, salvando. I mimi usati da Vick – nell’Oro del Reno, Walchiria e Siegfried – a rappresentare gli elementi umani e divini della natura, tra cui il fuoco di Locke, restano sul palco stupiti, sgomenti, ignari, indifferenti, aspettandosi di vedersi inondare da sfavillanti luci rosse, così come era stato nelle precedenti opere. Invece no le luci non si accendono, il fuoco non arde e loro non bruciano, non brucia Siegfried, non brucia Brunilde. Non brucia neanche Wagner. Non brucia la passione, l’intensità sinfonica della sua musica.

Stefan Anton Reck guida l’orchestra del Teatro Massimo senza particolari voli pindarici, quasi uniformandosi alla volontà registica di annientare tutto ciò che di eroico e divino Wagner ha voluto infondere nella sua musica, creando quel magnifico contrasto tra il testo e l’elemento evocativo sonoro. Con un cast dove si distinguono particolarmente le voci femminili – dalla Brunilde di Irene Theorin, alla Waltraute di Viktoria Vizin, alla Gutrune di Elizabeth Blancke-Biggs, alle Ondine del Reno/Norme di Christine Knorren e Stephanie Corley – piuttosto che quelle maschili – dal Siegfried di Christian Voigt, che ha continuato a mantenere le difficoltà di intonazione e stabilità nella voce manifestate a dicembre nel Siegfried che ha chiuso la stagione 2015, al Gunther di Eric Greene e Alberich di Sergei Leiferkus e l’Hagen di Mats Almgren – ma di buona presenza scenica, la parte musicale ha convinto meno di quella registica, dimostrando una certa nuova tendenza che vede in Italia soprattutto prediligere la parte visiva piuttosto che quella musicale. Una tendenza assolutamente da invertire tornando, se non proprio alle origini, almeno ad un equilibrio delle parti.

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Il teatro Massimo comunque porta a casa un meritato successo in questa produzione del Ring, iniziata nel 2013 con la precedente amministrazione della Fondazione e portata giustamente a compimento con la nuova. Un fiore all’occhiello che merita sicuramente di uscire dai confini palermitani e che segna uno step importante nella nuova attività produttiva del Massimo. Chi ancora non avesse avuto occasione di assistervi non perda la recita del 4 febbraio.

 

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