Meloni ad Ancona: “Governiamo l’immigrazione, l’Italia di nuovo centrale. E la sinistra vende odio”

In una piazza gremita, la Premier lancia la campagna per Acquaroli e traccia il bilancio dei tre anni di governo. Attacco frontale all’opposizione, alla magistratura “correntizia” e ai “business dell’odio”. Il patto di coalizione: “Solido, insieme da trent’anni”.

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Giorgia Meloni

Un fiume di gente, una piazza che – secondo le sue parole – supera per numero quella della prima, storica campagna elettorale. Giorgia Meloni sceglie Ancona, e il sostegno al governatore uscente Francesco Acquaroli, per lanciare un messaggio duplice: di forza verso l’esterno e di coesione verso l’interno. Con i due vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini schierati al suo fianco, la Presidente del Consiglio imbastisce un comizio-manifesto, un bilancio a tratti infuocato dei primi tre anni di esecutivo, strizzando l’occhio alla campagna regionale ma parlando soprattutto alla Nazione.
 
L’energia che cerca e che trova nella piazza marchigiana diventa la cartina al tornasole di un consenso che, a suo dire, non è affievolito ma anzi cresciuto nonostante le sfide. “Non era scontato”, ammette, trasformando l’affluenza in un plebiscito e in una legittimazione popolare all’azione di governo. “Significa che gli italiani vedono che ce la stiamo mettendo tutta”, tuona, “e che le aspettative non sono state deluse”.

La svolta sovranista: “Finita l’era in cui subivamo l’immigrazione”

Il cuore del discorso è una rivendicazione di sovranità, a partire dal tema migratorio, pilastro dell’identità politica meloniana. “In Europa è cambiata completamente la politica”, afferma senza mezzi termini. “È finita la stagione in cui subivamo l’immigrazione ed è iniziata la stagione in cui governiamo l’immigrazione”. Un cambio di paradigma presentato come irreversibile e difeso con toni da ultimatum contro qualsiasi ostacolo, interno o internazionale: “Se qualcuno pensa di impedirci di governare questo fenomeno, di combattere la mafia del mare, si metta l’anima in pace perché non ci riuscirà. Non c’è burocrate, politica, minoranza di giudici politicizzati che possa impedircelo”.

Una dichiarazione che suona come un atto d’accusa verso quelle frangiature della magistratura e dell’establishment europeo percepite come avversarie. È il preludio a un altro attacco frontale, quello sulla giustizia. Citando un’email di un magistrato che la definiva “pericolosa perché non ha interessi personali”, Meloni si auto-dipinge come incorruttibile e inricattabile, l’unico “condizionamento” essendo “gli impegni con i cittadini”. E promette: “Porteremo a casa la riforma della giustizia perché è giusta”, liberandola dalla “degenerazione correntizia”.

L’attacco all’opposizione: “Alleanza solida, loro si mentono”

La narrazione di un’Italia risorta, “credibile, centrale, rispettata” a livello internazionale, fa da contraltare al disprezzo per l’opposizione. Il centrodestra viene dipinto come un blocco monolitico e storico: “La nostra alleanza è solida, fondata sulla visione comune. Quelli che ogni giorno scrivono che ci tiriamo i cartocetti…fatevene una ragione. Stiamo insieme da trent’anni e continueremo a stare insieme”. Una presa di distanza netta dal caos dell’altro polo: “Andate a chiedere ai M5s se sono fieri di essere alleati con il Pd e al Pd se sono fieri di stare con i Cinque Stelle. Ci si può fidare di qualcuno che per tentare di essere convincente ha bisogno di mentire?”.

Ma l’accusa più grave, e personalissima, è quella di aver scatenato e monetizzato un “business dell’odio”. La Premier si dichiara la persona più odiata d’Italia e punta il dito contro un meccanismo preciso: “Leggo ogni giorno post sui social carichi di odio, ingiurie, accuse a me e al governo quasi sempre accompagnati dall’invito a comprare un libro, un biglietto per uno spettacolo. Vendete libri e biglietti ma non mi fate lezioni di morale visto quello su cui speculate”.

Il finale è una promessa di rivoluzione incompiuta: premierato, autonomia, Roma Capitale. La piazza, carica di “energia”, è la garanzia che quella “occasione storica” non sarà sprecata. Il ritorno ad Ancona non è un semplice comizio, ma la celebrazione di un ciclo politico che, dalla protesta, è approdato al governo e non intende fermarsi.