Il messaggio che arriva dalla Cina è chiaro: calma, astenersi da ogni azione che possa portare a un’escalation, muoversi con la consapevolezza che, alla fin fine, l’obiettivo finale è quello di sedersi a un tavolo per trattare. Nel giorno in cui Kim Jong Un fa suonare un’altra sveglia, lanciando un missile che ha sorvolato il Giappone costringendo la diffusione di un allarme alla popolazione nipponica, Pechino butta acqua sul fuoco. Ci ha pensato la portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying (foto) a cercare di calmare gli animi. Commentando il lancio del missile, ha chiesto a tutte le parti di evitare un’escalation e lanciato un appello per l’apertura di trattative di pace, dal momento che “pressioni e sanzioni” contro Pyongyang “non sono in grado di risolvere la questione alla radice”. A rendere ancor più diretto il messaggio, è arrivata un’analisi del Global Times, un portale online del sistema dei media del Partito comunista cinese, nella quale viene spiegato che il lancio non dimostra un avanzamento nella tecnologia missilistica nordcoreana tale da suggerire la capacità di colpire l’isola di Guam, nel Pacifico, che ospita forze americane. Invece, è un ulteriore segnale di Pyongyang che vuole trascinare il presidente Usa Donald Trump a togliere precondizioni per aprire il tavolo delle trattative. Al sentire le prime dichiarazioni di Trump, questo segnale non avrebbe colto nel segno. L’inquilino della Casa bianca ha detto che ora “tutte le opzioni sono sul tavolo”, compresa quindi quella militare. Ma le minacce fanno da sempre parte del gioco e Trump ha dato già prova di essere capace di cambi di linea spregiudicati.
“Il lancio del missile balistico sull’Hokkaido – ha proseguito – potrebbe essere una strategia per ‘prendere in ostaggio’ il Giappone e la Corea del Sud, due alleati strategici degli Usa, per minacciare l’America e costringerla alla cedere (ai negoziati) a certe condizioni”. Bisognerà capire se questa strategia nasce solo da frustrazione o se vi siano elementi concreti che facciano sperare a Pyongyang che uno spintone possa contribuire ad aprire la porta dei negoziati. Il rilascio a giugno di Otto Warmbier, lo studente americano condannato per futili motivi e riconsegnato in coma alle autorità americane e poi morto negli Usa, dimostra che un canale di discussione tra Pyongyang e Washington esiste. E da tempo si parla di incontri segreti tra il rappresentante speciale Usa per la Corea del Nord Joseph Yun, un diplomatico esperto, ed esponenti di Pyongyang. D’altronde, esiste un margine di trattativa. Perché, se gli Usa chiedono la rinuncia al programma nucleare, la Corea del Nord attraverso lo stesso Kim Jong Un un elemento su cui riflettere l’ha fornito. “La Repubblica popolare democratica di Corea non metterà sul tavolo negoziale il suo nucleare e i suoi missili balistici in alcun caso, non deflettendo neanche un pollice dalla strada del rafforzamento delle forze nucleari”, ha affermato il numero uno del regime. “A meno che – ha significativamente aggiunto – la politica ostile e la minaccia nucleare nei confronti della Repubblica popolare democratica di Corea non vengano definitivamente terminate”. Una posizione, questa, ripetuta sostanzialmente alla lettera il 7 agosto al forum regionale dell’Asean a Manila dal ministro degli Esteri nordcoreano Ri Yong Ho. Non è un approccio nuovo da parte di Pyongyang: il padre dell’attuale leader, Kim Jong Il, chiedeva a Washington un formale trattato di pace.