Voto Ue, è scontro Meloni-Tajani sull’addio all’unanimità
Il vicepremier azzurro si schiera per la maggioranza qualificata a Bruxelles. La premier invece difende il diritto di veto italiano per tutelare gli interessi nazionali.
Giorgia Meloni e Antonio Tajani
A Bruxelles, mentre il Consiglio europeo è impegnato nell’agenda ufficiale, un tema non previsto catalizza l’attenzione: il possibile abbandono del voto all’unanimità a favore della maggioranza qualificata su numerose materie comunitarie. Una questione antica ma sempre più urgente, che spacca il governo italiano ai massimi livelli. La discussione non è nuova, ma l’attualità la rende impellente.
Le crescenti difficoltà nell’adottare decisioni sul sostegno all’Ucraina, bloccate dal veto del primo ministro ungherese Viktor Orban e talvolta anche dello slovacco Robert Fico, hanno messo a nudo i limiti dell’attuale sistema decisionale. Fino ad ora si è proceduto con estenuanti negoziati, concessioni reciproche o le cosiddette “soluzioni creative” del presidente del Consiglio europeo Antonio Costa, che spesso aggira l’ostacolo ricorrendo al voto a maggioranza.
Ma la strategia ha un limite invalicabile: quando si dovrà decidere sull’utilizzo dei beni russi congelati per finanziare Kiev, l’unanimità sarà obbligatoria. E quello sarà il banco di prova definitivo. Il nodo non riguarda solo il presente. Con una possibile nuova ondata di allargamento verso Est, come potrebbe funzionare un’Unione europea composta da oltre trenta Stati membri, ciascuno con diritto di veto? La paralisi decisionale rischierebbe di diventare sistemica, compromettendo l’efficacia dell’intera architettura comunitaria.
Meloni difende il veto nazionale
Ieri alla Camera, rispondendo a un’interrogazione della deputata democratica Tatiana Rojc, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha espresso con inedita nettezza la sua posizione contraria alla riforma. “Non sono favorevole perché sarebbe utile per l’Ucraina ma varrebbe anche su molti altri temi, e su molti altri temi le posizioni della maggioranza potrebbero essere abbastanza distanti dalle nostre e dai nostri interessi nazionali”, ha dichiarato il premier.
La priorità, ha ribadito Meloni, resta la difesa degli interessi italiani. Rinunciare al potere di veto significherebbe, secondo questa visione, esporre Roma a decisioni contrarie ai propri obiettivi strategici, anche se questo implica rallentare o bloccare la macchina decisionale europea. Una linea “sovranista” che riflette la tradizionale diffidenza verso cessioni di sovranità in ambito comunitario, ma che stride clamorosamente con quanto affermato poche ore dopo dal vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani.
Tajani apre alla maggioranza qualificata
Stamattina a Bruxelles, a margine del vertice del Partito popolare europeo, Tajani ha tracciato un confine netto rispetto alla premier. “La mia posizione è sempre stata quella di Forza Italia: allargare il confine del voto a maggioranza qualificata in Consiglio Ue. È ovvio, siamo una forza europeista”, ha dichiarato il leader azzurro. Tajani ha poi precisato che il tema non è mai stato discusso collegialmente nella maggioranza, e che Meloni ha espresso una sua opinione personale.
“Io penso invece che si debba fare qualche passo in avanti, intanto cominciando dall’utilizzazione delle possibilità attuali. Però ne parleremo”, ha aggiunto, affrettandosi però a rassicurare: “Non è un tema di stabilità del governo”. La posizione del ministro degli Esteri riecheggia quella più volte espressa dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che in passato ha sottolineato la necessità di “superare, almeno per alcuni temi, il voto all’unanimità e passare al voto a maggioranza, specialmente in vista di nuovi allargamenti dell’Unione”. Senza questa riforma, aveva ammonito il Capo dello Stato, l’Europa rischia “la paralisi decisionale e l’irrilevanza sulla scena mondiale”.
Il paradosso dei Trattati
La questione, tuttavia, non è né di oggi né di domani. Esiste un paradosso giuridico di fondo che rende la riforma particolarmente complessa: secondo i Trattati vigenti, per abolire l’unanimità serve proprio l’unanimità. Un circolo vizioso che richiederà non solo volontà politica, ma anche creatività istituzionale per essere spezzato. Nel frattempo, la spaccatura tra il presidente del Consiglio e il suo vice testimonia come il dibattito sul futuro dell’Europa attraversi trasversalmente anche le maggioranze di governo, rivelando fratture che vanno ben oltre le dinamiche di coalizione.
