Mafia-appalti, De Luca all’Antimafia: “Concausa certa delle stragi”. Scarpinato e Pignatone nel mirino del procuratore
Il procuratore Salvatore De Luca e la pm Claudia Pasciuti in audizione Antimafia
Tre ore di audizione alla Commissione Antimafia. Il procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca mette nero su bianco ciò che per vent’anni si è cercato di nascondere: la gestione del filone mafia-appalti alla Procura di Palermo è una delle concause delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Non ipotesi, ma “concreti indizi” sostenuti da anni di indagini e migliaia di documenti. Il dossier che avrebbe dovuto salvare i due magistrati è diventato la loro condanna a morte. E qualcuno, forse, lo sapeva.
Per anni una controstoria ha cercato di farsi strada contro il racconto dominante. Quello che ha ignorato, sminuito, insabbiato la centralità del dossier Mafia-Appalti. Questa documentazione non è un fascicolo qualunque: è la chiave di interpretazione del lavoro investigativo dei ROS, un’indagine che precedette i giorni più tragici per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Si apre oggi una strada verso la verità. Una verità che svela come quel dossier fosse ritenuto fondamentale dallo stesso Borsellino, ma che fu oggetto di una vera e propria furia di archiviazione. Ci fu chi, pur sapendo o fingendo di sottovalutare l’importanza di quell’inchiesta, ebbe una fretta sospetta di chiudere il caso. Per i vent’anni successivi si è cercato di marginalizzare la portata di Mafia-Appalti, negandone il carattere decisivo. Ma le prove erano lì, sulla scrivania. La domanda rimane inquietante: come è stato possibile ignorare la pista che forse ha portato alla strage?
Isolamento e sovraesposizione: le precondizioni delle stragi
“Tra tutti i filoni investigativi aperti, quello su cui abbiamo trovato maggiori elementi e maggiori riscontri è proprio mafia-appalti”, dichiara De Luca. Un’affermazione pesante come un macigno. Al centro dell’inchiesta, le modalità con cui fu gestita a Palermo l’indagine su quel sistema di potere che intrecciava mafia, imprenditoria e politica negli appalti pubblici siciliani. Le due precondizioni individuate dalla Procura sono l’isolamento e la sovraesposizione di Falcone prima, Borsellino poi. “Non ci sono più le condizioni per lavorare a Palermo, non posso più lavorare a Palermo, non mi fanno lavorare a Palermo”: parole che Falcone avrebbe pronunciato in una riunione del movimento per la giustizia, alla presenza del giudice Gioachino Natoli. La sovraesposizione riguarda le situazioni di inopportunità in cui si trovarono il procuratore Pietro Giammanco e il sostituto Giuseppe Pignatone. Situazioni che avrebbero creato nell’ambiente mafioso la percezione di una dirigenza debole o malleabile, amplificando per contrasto l’immagine di Falcone e Borsellino come incorruttibili. E quindi bersagli prioritari.
Natoli mentì al CSM dopo la morte di Falcone
Natoli, secondo De Luca, avrebbe mentito al Consiglio Superiore della Magistratura nel luglio 1992. Interrogato sui rapporti Giammanco-Falcone, dichiarò di non sapere nulla, né direttamente né indirettamente, sull’isolamento del giudice. “Aveva però partecipato a quella riunione in cui Falcone dichiarò esplicitamente di non poter più lavorare”, sottolinea il procuratore. Una contraddizione stridente emerge dalle intercettazioni: al CSM Natoli difese strenuamente Giammanco negando qualsiasi problema, ma intercettato disse “Giammanco ha fatto tante porcherie”. Non solo. Risulta che Natoli fosse a conoscenza già dal novembre 1991 di un fatto gravissimo: Giammanco aveva inviato una relazione riservata sull’indagine mafia-appalti alla giudice Livia Pomodoro, in quello che De Luca definisce “presumibilmente reato” per violazione del segreto d’ufficio. Sul fronte della cosiddetta pista nera, il procuratore è netto: “L’ipotesi legata al terrorista Stefano delle Chiaie vale zero tagliato. Già ne abbiamo perso abbastanza di tempo, continuare a parlare di questa vicenda è un’autentica perdita di tempo”.
Le ombre su Pignatone: immobili e legami pericolosi
Su Giuseppe Pignatone, all’epoca sostituto procuratore a Palermo e oggi procuratore generale a Perugia, si concentrano le rivelazioni più dettagliate. Pignatone crebbe in una palazzina di via Auditore dove otto appartamenti su quattordici erano abitati dalla famiglia del costruttore mafioso Vincenzo “Enzo” Piazza, quattro dalla famiglia Pignatone. A pochi numeri civici abitava Francesco Bonura, altro boss-imprenditore. La famiglia Pignatone acquistò ben 26 immobili dall’Immobiliare Raffaello, società “dove se si riuniscono i soci è una riunione di Cosa Nostra”, controllata da Piazza, dai fratelli Buscemi, entrambi mafiosi, e da Bonura. Il prezzo pagato, secondo una consulenza della Procura, fu inferiore del dieci per cento rispetto al mercato. Pignatone stesso ammise di aver pagato “20 milioni in nero” per un appartamento. Emerge anche la figura del professor Pignatone, padre di Giuseppe, presidente dell’ESPI, uno dei due soci della SIRAP, società al centro del sistema mafia-appalti.
Scarpinato e l’archiviazione sospetta di Buscemi
Indicato in una relazione antimafia come collegamento tra mafia e politica a Caltanissetta, il professor Pignatone ebbe come testimone di nozze l’onorevole Volpe e rapporti con Calogero Vizzini. “Rimane da capire”, si chiede De Luca, “perché Pignatone non abbia ritenuto opportuno astenersi quantomeno nel filone mafia-appalti dove, autorizzando le intercettazioni ai dirigenti della SIRAP, vi era l’alta probabilità che emergessero fatti riguardanti il padre”. Uno dei passaggi più delicati riguarda Roberto Scarpinato, allora sostituto procuratore a Palermo e oggi senatore. Nel procedimento mafia-appalti, Scarpinato firmò con Lo Forte una richiesta di archiviazione per Antonino Buscemi in cui si affermava che “non c’è assolutamente nulla” a suo carico. “È abbastanza singolare”, osserva De Luca, perché contestualmente Scarpinato era titolare del procedimento di prevenzione contro lo stesso Buscemi. “Come puoi contemporaneamente continuare la misura di prevenzione se tu procura dici ‘su questo non abbiamo assolutamente nulla’?”. Subito dopo aver firmato l’archiviazione in sede penale, Scarpinato scrisse ai Carabinieri chiedendo tutto il materiale su Buscemi.
Due fascicoli paralleli: uno penale vuoto, uno di prevenzione pieno
Nella misura di prevenzione confluirono le indagini di Massa Carrara, le dichiarazioni del pentito Calderone, intercettazioni già presenti nel rapporto del febbraio 1991. “Nel procedimento penale non c’è niente, nella misura di prevenzione c’è tutto”, sintetizza De Luca. Un elemento centrale è l’immobilismo investigativo. “Dopo due anni non è stata fatta una sola indagine su Buscemi Antonino”, denuncia il procuratore. Le indagini di Augusto Lama da Massa Carrara vengono archiviate senza approfondimenti. Viene creato un “doppione” di fascicolo che rimane “occulto in modo incomprensibile per molti anni”. Su Giancarlo Lo Forte, invece, la Procura ha valutazioni più positive. Nessun pentito lo accusa. E appena rimosso Giammanco, nel maggio 1993, Lo Forte firmò l’arresto di Buscemi. “O aveva accettato il rischio di sovraesporsi pur avendo ricevuto denaro, oppure non aveva nulla da nascondere. Dobbiamo adottare la seconda ipotesi”, spiega De Luca. Sulla celebre riunione del 14 luglio 1992, cinque giorni prima della strage di via D’Amelio, il procuratore ridimensiona: non ci fu scontro aperto tra Borsellino e la dirigenza, ma per strategia.
L’ultima rivelazione di Mutolo e la sfiducia totale
“Borsellino aveva detto chiaramente a Ingroia: ‘Giammanco è troppo potente, non voglio fare la fine di Falcone, devo seguire un’altra strategia’”. L’ultimo tassello è agghiacciante. Il 18 luglio 1992, un giorno prima di morire, Borsellino riceve dal collaboratore di giustizia Mutolo una “bomba atomica”: la collusione con Cosa Nostra del colonnello Contrada, numero tre del SIS, e di Domenico Signorino. Borsellino esce dalla stanza dove erano presenti Natoli e Lo Forte senza dir loro nulla. Il sabato mattina va in Procura, vede Giammanco, ma poi riferisce la notizia solo a due colleghi di cui si fida: De Francisci e Teresi, estranei alla gestione del collaboratore. “È il massimo atto di sfiducia che Borsellino potesse fare nei confronti della dirigenza”, spiega De Luca. “Questa è roba da procedimento disciplinare in condizioni normali. Ma Borsellino lo fa perché è sicuro che lo ammazzeranno e si attrezza perché la notizia non si perda”. Il procuratore ha ribadito che Borsellino nutriva una “estrema diffidenza” nei confronti di Giammanco, Natoli e Lo Forte, definendolo un “leone” che non aveva paura di affrontare i vertici della Procura.
Mancano ancora due capitoli da svelare
L’audizione si conclude con l’annuncio che mancano ancora “due grossi capitoli” da affrontare. La Procura di Caltanissetta ha aperto filoni su “tutte le principali ipotesi” sulle stragi, ma è su mafia-appalti che ha trovato i riscontri più solidi. Vent’anni di silenzi, depistaggi, archiviazioni sospette. Vent’anni in cui si è cercato di nascondere la verità. Oggi quella verità emerge con la forza di un atto d’accusa. E pone domande alle quali qualcuno dovrà rispondere.
