ZOHRAN KWAME MAMDANI POLITICO STATUNITENSE

Zohran Mamdani

Martedì notte non ha parlato l’America di Donald Trump; ha parlato l’America stanca di Donald Trump. A un anno esatto dal suo ritorno alla Casa Bianca, il presidente ha subito uno schiaffo politico e simbolico che risuona da costa a costa. L’ondata blu che ha travolto New York, la Virginia, il New Jersey e la California non è una semplice vittoria elettorale per i democratici. È un referendum sull’operato presidenziale, un rigetto netto del trumpismo come ideologia di governo e la conferma che l’elettorato, quando mobilitato, cerca stabilità e non caos.

L’epicentro di questo sisma politico è, inevitabilmente, New York. L’elezione di Zohran Mamdani, 34 anni, deputato statale della corrente socialista, a 111mo sindaco della città, è un evento che trascende la cronaca locale. Non solo perché Mamdani è il primo sindaco musulmano e sud-asiatico della metropoli, ma perché rappresenta l’antitesi esatta dell’uomo che ha costruito la sua fama e la sua presidenza proprio in quei grattacieli. Mamdani ha vinto sconfiggendo Andrew Cuomo, erede di una dinastia e figura dell’establishment democratico, ma che negli ultimi giorni aveva incassato un disperato e tossico endorsement proprio da Trump. La sconfitta di Cuomo è dunque doppia.

Mamdani ha vinto mobilitando un’affluenza che non si vedeva dagli anni Sessanta, superando i 2 milioni di voti. Ha costruito un’alleanza inedita tra i giovani progressisti e le comunità di immigrati della classe lavoratrice, dimostrando che una “nuova sinistra” urbana può vincere non nonostante la sua identità, ma grazie ad essa. La sua vittoria, con il 51,5% dei voti, non è un incidente, ma il sintomo di una svolta generazionale e ideologica che la vecchia guardia, sia democratica che repubblicana, non ha saputo intercettare.

Ma l’onda non si è fermata ai confini dell’Hudson. Se New York è il simbolo culturale, la Virginia è da sempre il termometro politico della nazione. Lì, la democratica Abigail Spanberger, 46 anni, ex agente della CIA e figura moderata, ha conquistato la poltrona di governatrice con un margine schiacciante di 15 punti. È la prima donna a guidare lo Stato. La sua campagna, riassunta nello slogan “comunità invece del caos”, ha fatto breccia in un elettorato evidentemente sfibrato dalla polarizzazione permanente.

Lo stesso copione si è ripetuto in New Jersey. Mikie Sherrill, 53 anni, ex pilota della Marina e deputata progressista, ha vinto con oltre 10 punti di vantaggio sul repubblicano Jack Ciattarelli. Quest’ultimo, come Cuomo a New York, aveva cercato l’abbraccio di Trump, ricevendone l’appoggio diretto. La Sherrill ha impostato la sua campagna sul costo della vita, promettendo stabilità contro gli “estremismi”. Ha funzionato. In entrambi gli stati, l’elettorato ha premiato profili pragmatici, ma inequivocabilmente democratici.

Mentre l’elettorato bocciava i candidati del presidente, in California gli stessi elettori approvavano la “Proposition 50”. Si tratta di un referendum voluto dal governatore Gavin Newsom per ridisegnare la mappa dei collegi elettorali, una mossa strategica per blindare la rappresentanza democratica contro le manovre di gerrymandering repubblicane viste in Texas. È la prova che i democratici hanno combattuto su due fronti: quello culturale e quello strutturale.

Di fronte a questa disfatta su tutta la linea, la reazione del presidente Donald Trump è stata tanto furente quanto distaccata dalla realtà. Dalla sua piattaforma Truth Social, ha definito il voto in California “una truffa incostituzionale” e parlato di “elezioni rubate”. Ha insultato gli elettori ebrei che hanno sostenuto Mamdani (“stupidi”) e ha attribuito la sconfitta repubblicana non ai suoi candidati o alle sue politiche, ma alla sua stessa assenza dalle schede. “Senza Trump in lista i repubblicani non vincono”, ha scritto, fallendo clamorosamente nel leggere il dato più ovvio.

I sondaggi d’uscita dicono l’esatto contrario: 9 elettori su 10 che disapprovano l’operato di Trump hanno votato democratico. I repubblicani non hanno perso perché Trump non c’era, ma perché la sua ombra c’era eccome. I democratici, nel frattempo, hanno ritrovato slancio e perfino riconquistato terreno tra l’elettorato latino e afroamericano.

Questa “grande notte dei democratici” segna il primo, vero campanello d’allarme del secondo mandato di Trump. Per il Partito Repubblicano si apre una riflessione drammatica, stretto com’è tra la fedeltà suicida al suo leader e la necessità impellente di cambiare rotta per sopravvivere alle elezioni di metà mandato del 2026. Martedì, l’America ha dimostrato di essere stanca della retorica e di cercare risultati, preferendo l’ex spia moderata in Virginia e il giovane socialista a New York al caos di un presidente incapace di accettare la sconfitta.