Kerry risponde a Israele, colonie un ostacolo alla pace. E parla di pericolo Trump

Kerry risponde a Israele, colonie un ostacolo alla pace. E parla di pericolo Trump
29 dicembre 2016

Sarà anche “patetico”, “antidemocratico” e “di parte”, come lo hanno definito in Israele, ma quello tenuto ieri da John Kerry è stato forse il suo discorso sul Medio Oriente più duro e privo di quel linguaggio diplomatico a cui le persone come lui sono abituate. Perché con il suo mandato ormai agli sgoccioli e con all’attivo negoziati di pace avviati alla fine di luglio 2013 per la prima volta dal 2010 ma falliti dopo meno di nove mesi, il segretario di Stato ha lanciato avvertimenti e ha fatto nomi per difendere la linea dell’amministrazione Obama ma soprattutto per dire che mai come ora una soluzione dei due Stati è “in pericolo”. Kerry non ha risparmiato nessuno: dai coloni israeliani che “dettano l’agenda del futuro di Israele”, quella di un solo Stato, alla leadership palestinese che incita la violenza nei confronti di civili israeliani fino ad Hamas, l’organizzazione considerata da Washington come terroristica e che secondo il capo della diplomazia Usa “si rifiuta di riconoscere lo Stato di Israele ed è disposta a mettere in pericolo i palestinesi nella striscia di Gaza per portare avanti la sua agenda”. Kerry si è rivolto indirettamente anche a Trump, che qualche ora prima aveva chiesto a Israele di “restare forte fino al 20 gennaio prossimo”, quando il presidente Usa sarà lui.

ONU Kerry non ha dubbi: “La soluzione dei due Stati è l’unico modo per garantire pace nel Medio Oriente, la sicurezza dello Stato di Israele, un futuro di dignità per il popolo palestinese e per avanzare gli interessi degli Usa nella Regione”. E’ proprio per questo che “in buona coscienza” gli Stati Uniti venerdì 23 dicembre hanno rotto con il passato astenendosi al Consiglio di sicurezza Onu e permettendo così l’adozione di una risoluzione che chiede lo stop immediato agli insediamenti israeliani nei territori occupati della Palestina in Cisgiordania e a Gerusalemme Est e che allo stesso tempo condanna la violenza palestinese. “Dobbiamo agire oggi per preservare la possibilità di una pace duratura che ambo le parti si meritano”, ha detto Kerry. Il segretario di Stato sa benissimo che Donald Trump farà di testa sua quando metterà piede nella Casa Bianca: lo ha già promesso in una serie di tweet dicendo che con lui le cose “cambieranno”, anche all’Onu. Ma nel frattempo per il segretario di Stato “non si può fare o dire nulla quando viene meno la speranza” per un accordo di pace tra Israele e Palestina.

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L’AMICIZIA E in risposta sia al presidente eletto sia al premier israeliano Benjamin Netanyahu (che aveva detto che “gli amici non trascinano gli amici al Consiglio di sicurezza”), Kerry ha tuonato: “Gli amici devono dirsi la verità dura e l’amicizia richiede rispetto reciproco”. Come a dire, Israele sta sbagliando ed è un bene che gli Usa glielo facciano sapere (ma non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire). “Purtroppo, qualcuno sembra credere che l’amicizia Usa stia a significare che gli Usa debbano accettare qualsiasi politica a prescindere dai suoi interessi”, ha continuato Kerry precisando che “il mio lavoro prima di tutto sta nel difendere gli Stati Uniti d’America, nel difendere i nostri valori e interessi nel mondo. Abbandoneremmo le nostre responsabilità se non dicessimo niente sapendo che, così facendo, permetteremmo dinamiche pericolose che garantiscono conflitti e instabilità maggiori in una Regione dove abbiamo interessi vitali”.

DISPREZZO Resta da vedere se la speranza che Kerry chiede di alimentare con azioni “concrete” da ambo le parti si spegnerà definitivamente quando in Israele arriverà l’ambasciatore Usa David M. Friedman, un amico dei coloni e contrario a una soluzione dei due Stati. Secondo Trump, Israele è stato trattato con “disprezzo” e “mancanza di rispetto totali” dall’amministrazione Obama, che invece sostiene di “non avere abbandonato Israele”, nemmeno dopo la storica astensione all’Onu su una risoluzione che Washington “non ha creato né portato avanti” come invece insinuato dai critici. Netanyahu si dice profondamente deluso da Kerry, che poco prima lo aveva messo in guardia: “L’agenda dei coloni israliani sta determinando il futuro di Israele con un unico obiettivo: un solo Stato”. E non è finita qui: “Il premier israeliano pubblicamente sostiene la soluzione dei due Stati ma la sua coalizione è quella maggiormente di destra della storia di Israele” e sta spingendo appunto per una soluzione opposta.

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L’AMBASCIATA Il segretario di Stato ha detto “con certezza che se Israele persegue questa strada, non sarà mai in pace”. Per evitare questo scenario Kerry ha proposto sei principi da seguire quando e se Israele e Palestina saranno pronti a negoziare. Perché nessuno può imporre loro di farlo (Abu Mazen sembra pronto a trattare se ci sarà il congelamento di insediamenti nuovi). Uno di quei principi prevede Gerusalemme come capitale di ambo gli Stati in cui sia garantito il libero accesso ai siti sacri. Come detto da Kerry, questa “è una delle questioni più difficili” e forse più esplosive visto che là l’ambasciatore scelto da Trump è pronto a trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv rompendo con una tradizione americana di lunga data. Viene da chiedersi se le azioni e le parole dell’amministrazione Obama giungano “too little too late”, come direbbero in America, e se alla luce di rinnovate tensioni, Israele e Palestina sapranno alzare il livello “troppo basso” di fiducia che – ha spiegato Kerry – ha fatto saltare in precedenza i colloqui di pace per “il timore che ogni loro concessione non sarebbe stata ricambiata”.

 

 

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