Teatro Bellini di Catania, in scena un Rigoletto senza anima

Teatro Bellini di Catania, in scena un Rigoletto senza anima
27 ottobre 2015

di Laura Donato

rigoletto3Tradizione sì, tradizione no…. La messa in scena del Rigoletto verdiano nell’edizione del teatro Massimo Bellini Catania, penultima rappresentazione della stagione 2015 e sulla quale domani calerà il sipario , riaccende inevitabilmente il dibattito ormai noto nell’ambiente operistico che vuole le regie tradizionali contrapposte a quelle moderne secondo lo stile del Regie Theatre. Le scene, i costumi e la regia di Roberto Laganà, esponente rinomato della vecchia scuola registica di tradizione, collocano sì l’opera nel suo contesto originale, ma mancano di ricrearne l’atmosfera, disegnarne la vitalità o l’orrore, perdendo cioè quello che è più che necessario in una regia di tradizione, il mordente, il quid che la distacca da tutte le altre fatte precedentemente. Una certa ricchezza dei costumi, la linearità architettonica delle scene, a volte eccessivamente scarna e statica, anche a causa di effetti luci poco variegati – come nel secondo e quarto atto – non coprono le mancanze registiche nell’approccio all’opera, a volte assolutamente elementari: come lo stabilire le entrate e uscite dal palcoscenico in base alle parole del libretto, oppure il vano tentativo di rivitalizzare, con danze e movenze di alcuni Pierrot fuori epoca e contesto, una noiosa festa a corte con cortigiani tutt’altro che intenti ad orge e divertimenti. Il dramma di Rigoletto sulla scena e in musica si dipana senza particolari scossoni, affondando in una piatta esecuzione dove vengono a mancare i colori dei sentimenti, il pathos, la pietà, il dolore. Né la conduzione, a volte eccessivamente energica del giovane direttore, Michelangelo Mazza, riesce ad accendere la luce della comprensione di un’opera complessa come è il Rigoletto di Verdi.

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Senza quindi una guida, in buca e sulla scena, ecco che gli interpreti hanno cercato di dare più di quanto potessero e sentissero dei loro personaggi. Su tutti Alberto Gazale nel ruolo del titolo. Il baritono sardo ha mostrato tutta la valenza di una voce sicura, dal timbro scuro, poco incline tuttavia a piegarsi, ammorbidendosi, alle dinamiche richieste dal ruolo e dalla partitura. Un Rigoletto rabbioso il suo, più che uno sfortunato irriso dalla sorte e dagli uomini, che perde il suo unico bene in terra, la figlia. Una figlia, Gilda, ben delineata dal soprano Daniela Bruera, estatica al punto giusto e ferma nelle coloriture e variazioni di Caro Nome, meno drammatica e intensa nella seconda parte dell’opera, dove è richiesto uno spessore maggiore a livello interpretativo e vocale. Assente in scena e vocalmente il Duca del coreano Jaeheui Kwon, cui neanche una probabile microfonatura dell’ultimo momento ha reso più incisivo sulla scena. Nella tradizione e nella norma i comprimari – ad eccezione dello Sparafucile di Maurizio Muscolino, con un discreto controllo delle note gravi e una moderata disinvoltura scenica – con una poco incisiva e seducente Maddalena di Kulli Tomingas, ed un giovanissimo, anche vocalmente, Monterone di Davide Giangregorio. Piatta l’esecuzione del coro dei cortigiani, solitamente uno dei punti di forza dell’opera, diretto da Ross Craigmile, al cui interno le voci di Borsa (Riccardo Palazzo), Marullo (Simone Tansini) e Ceprano (Nazario Pantale Gualano) si mescolavano senza spiccare particolarmente. Un Rigoletto, quindi, quello del Bellini di Catania dove la tradizione va a nozze con i luoghi comuni di una certa operistica di stantia e vecchia memoria, invece di trovare spunti di rinnovamento anche nella tradizione stessa e nel “così sta scritto” verdiano. (foto, tenore Jaeheui Kwon e Daniela Bruera)

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