Smantellato clan a Palermo, così i boss eleggevano i loro capi

Smantellato clan a Palermo, così i boss eleggevano i loro capi
11 dicembre 2015

di Andrea Tuttoilmondo

Con l’operazione “Torre dei diavoli”, i carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Palermo hanno inferto un duro colpo al mandamento mafioso di Santa Maria di Gesù. Sei sono stati i provvedimenti di fermo, emessi dalla Procura di Palermo, nei confronti di Giuseppe Greco, Natale Giuseppe Gambino, Gabriele Pedalino, Domenico Ilardi, Lorenzo Scarantino e Francesco Urso. Per loro le accuse sono, a vario titolo, di omicidio, tentato omicidio, associazione mafiosa e reati in materia di armi. Le indagini hanno fatto luce sul processo di riorganizzazione interna e la capacità militare del clan culminata nel recentissimo omicidio di Salvatore Sciacchitano e nel ferimento di Antonino Arizzi. Il capofamiglia, detto anche “Principale”, era Giuseppe Greco, il quale poteva contare sul sottocapo Natale Giuseppe Gambino e in Salvatore Profeta. A questi ultimi due esponenti dell’organizzazione, scarcerati nell’ottobre 2011 a seguito della richiesta di revisione del processo per la strage di via d’Amelio, si sarebbero aggiunti il genero di Salvatore Profeta, Francesco Pedalino, con il ruolo di capodecina, ed il figlio, Antonino Profeta, scelto direttamente dal “principale” come proprio rappresentante. Tale incarico, non previsto formalmente nella gerarchia mafiosa, avrebbe consentito al giovane uomo d’onore di interloquire con altri appartenenti al clan svincolato dagli obblighi e dalle limitazioni tipiche derivanti dalla posizione di “soldato” e con la dipendenza esclusiva dal capo della famiglia ovvero, nella sola ipotesi di temporanea assenza del vertice, dal sottocapo.

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Dopo l’omicidio di Giuseppe Calascibetta, ucciso il 19 settembre 2011, la reggenza della famiglia sarebbe stata saldamente assunta proprio da Greco, la cui posizione di vertice avrebbe richiesto una legittimazione rituale da parte degli altri uomini d’onore. In tale ambito, dato assolutamente inedito nel panorama investigativo degli ultimi trent’anni, si è rivelata la capacità di documentare le fasi della elezione del capofamiglia. Di tale rituale si aveva avuto finora contezza solo attraverso le dichiarazioni dei primi collaboratori di giustizia degli anni ’80. Le procedure di elezione, ad imitazione delle vere competizioni politiche, sarebbero tuttora basate su una preliminare attività di propaganda a favore dei candidati, anche se in realtà non vi sarebbe stato nella circostanza un vero e proprio antagonista alla figura di Greco che, in funzione della carica di reggente già assunta, avrebbe ottenuto da subito il consenso degli affiliati più autorevoli, tra i quali lo stesso Salvatore Profeta, il quale si è offerto di appoggiare Giuseppe Greco probabilmente per la sua parentela con il collaboratore Vincenzo Scarantino, certamente ingombrante, e per via dell’età avanzata.

Dopo l’attività di propaganda e stata disvelata la vera e propria elezione. In sintesi essa è avvenuta attraverso il voto di tutti gli affiliati a scrutinio palese (“ad alzata di mano….per vedere l’amico”) anche se nel passato si ricorreva ad urne consegnate ai capodecina per la raccolta tra i soldati (un tempo indicati nell’ordine delle 120 unità). La procedura elettiva avverrebbe oggi solo per le cariche di capofamiglia e consigliere, mentre le nomine per i ruoli di sottocapo e capodecina sarebbero riservate allo stesso Capo famiglia – Principale in precedenza eletto. Se la base dell’organizzazione esprime i vertici, al capofamiglia invece spetterebbe designare a suo insindacabile giudizio i propri collaboratori. Secondo tale principio si inquadra l’assegnazione ad Antonino Profeta di un incarico fiduciario al di fuori delle funzioni tradizionali ed alle dirette dipendenze del vertice che l’avrebbe autorizzato ad eludere le rigide regole della gerarchia mafiosa e l’obbligo di informazione dei quadri immediatamente superiori. Il quadro investigativo si è arricchito di interessanti riferimenti al periodo precedente la seconda guerra di mafia, quando le elezioni costituivano un mero fatto formale, essendo la carica di capofamiglia (e capomandamento) di pertinenza esclusiva dello storico esponente Stefano Boutade inteso il principe di Villagrazia e/o il Falco, poi ucciso nel 1981.

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Il ricordo della assoluta autorità, benché vittima del tradimento dei suoi stessi collaboratori schieratisi con i corleonesi, si è rivelata circostanza ancora presente a distanza di molti anni tra gli attuali indagati che hanno stigmatizzato come “il generale non ne ha vinto mai guerra senza soldati”, esaltando la forza della famiglia come entità (tutti siamo utili e nessuno è… indispensabile!) in grado di imporsi all’interno ed all’esterno (l’unica legge che conosci tu… è quella del più forte!). Le elezioni del capo famiglia hanno determinato il riordino dell’organizzazione che, oltre a ratificare i rapporti di forza interni, avrebbe riaffermato l’esigenza del controllo sul territorio di influenza anche nei confronti di iniziative non autorizzate da parte di soggetti legati alla medesima compagine mafiosa. In questo le indagini hanno fatto emergere il coinvolgimento di Cosa nostra nell’agguato mortale a Salvatore Sciacchitano, ucciso la sera del 3 ottobre scorso da un commando formato da tre sicari. Sciacchitano è stato brutalmente punito in quanto reo di aver partecipato, solo poche ore prima della sua uccisione, al ferimento di Luigi Cona, soggetto legato ad esponenti della famiglia di Santa Maria di Gesù pur non essendone organico. (foto archivio)

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