La Madia fa tremare 30mila dirigenti pubblici, niente più incarichi a vita. A rischio anche la poltrona

La Madia fa tremare 30mila dirigenti pubblici, niente più incarichi a vita. A rischio anche la poltrona
5 settembre 2016

di Filippo Caleri

menagerSono oltre 30 mila i dirigenti pubblici che rischiano di essere messi nel calderone della riforma Madia, approvata alla fine di agosto, e che riscrive le norme che disciplinano i requisiti di accesso ai posti di comando dello Stato e degli enti locali. Un progetto di legge il cui obiettivo è onorevole: dare una spinta all’innovazione in un settore rimasto in alcuni casi a logiche ottocentesche, ma che rischia nella sua applicazione di creare una giostra di domande da parte di migliaia di concorrenti, già nell’amministrazione, tutti in corsa per guadagnarsi un incarico. Una delle principali critiche al provvedimento è stata, infatti, quella di aver annullato la distinzione tra i dirigenti di prima e seconda fascia. Una barriera che distingue i due livelli di complessità amministrativa affidati al manager pubblico. Ora con la riforma Madia questa delimitazione è stata annullata. Tutti i titolari di “gradi” partono dalla stessa linea di partenza. Dunque si sancisce la “fine” del dirigente a vita. I mandarini dello Stato avranno un mandato a tempo di 4 anni, eventualmente rinnovabile, per una volta sola, per altri due anni. In altre parole gli incarichi saranno assegnati con il principio della rotazione e chi non troverà una collocazione e rimarrà senza sedia, non percepirà la parte variabile della retribuzione.

Per ogni anno passato senza un ruolo operativo, il dirigente si vedrà decurtata anche la retribuzione fissa del 10%. Dopo sei anni fuori dai ranghi, il dirigente potrà essere licenziato, a meno che non accetti volontariamente di essere degradato a semplice funzionario. Un meccanismo di equiparazione che ha acceso le proteste soprattutto dei direttori generali, che non hanno gradito l’idea di partecipare alla lotteria dei concorsi insieme agli altri funzionari. Così il governo ha previsto una sorta di salvagente, permettendo ai grand commis di aggirare lo scoglio del concorso attraverso una “corsia preferenziale” per le amministrazioni, quando emetteranno i bandi per gli incarichi secondo il nuovo regime, di riservare almeno il 30% dei posti a chi ha già ricoperto nell’amministrazione un ruolo di prima fascia. Fin qui l’impianto della riforma che presenta altre criticità ancora non superate come quella di non prevedere differenziazioni salariali secondo le fasce di responsabilità che i dirigenti vanno a prendere. Anche nell’ambito di ruoli equipollenti infatti i carichi decisionali non sono sempre gli stessi.

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In un ministero come quello dello Sviluppo Economico, ad esempio, il direttore che gestisce gli incentivi alle imprese ragiona e sceglie la destinazione delle risorse come un manager di un fondo azionario, dunque con un rischio molto più elevato rispetto a chi gestisce uffici come quello che registra brevetti e marchi, o quello che si occupa dei rapporti con i consumatori. Stesso esempio anche nella presidenza del Consiglio dei ministri, dove a poltrone pesanti come quelle degli affari giuridici e legislativi, si affiancano uffici meno onerosi dal punto di vista delle responsabilità come quello per il cerimoniale e le onoreficenze di Stato o la struttura di missione per gli anniversari di interesse nazionale. Insomma, il ruolo unico rischia di appiattire tutti i dirigenti e di non riconoscere economicamente la differenze di mansioni dirigenziali assegnate. Infine, quanto ai numeri dei soggetti interessati alla roulette della Madia secondo le ultime rilevazioni dell’Aran riferite al 2014 i dirigenti ministeriali erano in tutto 3.016, 242 dei quali di prima fascia e 2.362 di seconda. Ben 1571 erano invece a capo delle Agenzie fiscali (62 di prima, 517 di seconda e 992 con incarico provvisorio). Altri 282 erano insediati a Palazzo Chigi (107 di prima fascia e 175 di seconda). Nelle Autorità indipendenti ce ne erano 249 e 2039 nei corpi di Polizia.

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