Ombre birmane, dai rubini insanguinati agli abusi sui Rohingya

Ombre birmane, dai rubini insanguinati agli abusi sui Rohingya
4 gennaio 2017

La Birmania produce più dell’80% dei rubini del mondo. Un settore destinato a crescere esponenzialmente nei prossimi mesi con la fine del blocco delle importazioni delle gemme birmane negli Stati Uniti. Una delle tante conseguenze positive portate dalla caduta del regime militare: si parla di un giro di affari di miliardi di dollari, l’anno scorso una singola pietra è stata venduta per 30 milioni, in un Paese poverissimo. Eppure anche in questo vicenda, come in molte altre della nuova Birmania di Aung San Suu Kyi, c’è un lato oscuro.

Il settore, infatti, è rimasto saldamente nelle mani dei militari, non più al governo ma pur sempre figure di potere all’interno del Paese. Controllano l’industria, intascano i profitti e lasciano le briciole ai lavoratori. I compratori americani dovranno assicurarsi che nelle miniere si rispettino i diritti dei lavoratori e l’ambiente se non vogliono alimentare un mercato che arricchirebbe solo i potenti di sempre sulle spalle dei più deboli.

È una delle tante contraddizioni che la Birmania deve risolvere. La salita al potere della premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha segnato una svolta innegabile, ma ora il governo deve fare i conti con situazioni complicate. Su tutte la questione della discriminazione e dei maltrattamenti dei Rohingya, minoranza musulmana in un paese a maggioranza buddista. Il silenzio del premio Nobel per la pace sugli abusi nei loro confronti pesa ed è stato fortemente criticato, soprattutto dopo questo video che mostra poliziotti birmani picchiare alcuni musulmani. Il governo dopo molte pressioni ha annunciato che gli agenti saranno arrestati ma non è bastato a sopire le polemiche: 11 premi Nobel hanno pubblicamente accusato Suu Kyi di non fare niente contro quella che è stata definita “una pulizia etnica”.

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