Teatro Massimo, “Attila” a Palermo da flagello a “vittima” di intrighi politici

Teatro Massimo, “Attila” a Palermo da flagello a “vittima” di intrighi politici
24 febbraio 2016

di Laura Donato

Non è il “Flagello di Dio” dipinto dalla storia, l’ Attila distruttore, il capo degli Unni dietro il cui passaggio non cresceva erba, delineato nella Produzione dell’opera di Verdi dedicata al Re Barbaro, in scena sino a venerdì al Teatro Massimo di Palermo con Erwin Schrott, basso baritono uruguaiano di fama mondiale, nel ruolo del titolo. E’ piuttosto un Attila dubbioso, quasi timido nella sua spavalderia di facciata. Un uomo tradito. Vittima del suo essere straniero. Ingenuo, proprio perché estraneo ai giochi di ruolo giocati dagli altri tre protagonisti, su tutti Ezio il rappresentante di Roma, ambizioso, che vuole sfruttare l’ingenuità del barbaro invasore per ottenere lui il potere dell’Italia, un’Italia devastata e per questo facile preda. L’Attila di Verdi appartiene sicuramente ai titoli politici del compositore di Busseto e in essa si sentono gli squilli eroici del risorgimento italiano, ma si sente anche l’abbandono e la mestizia per una terra che potrebbe essere ben diversa e che invece sembra perdersi in mano ad invasori, sognatori – come Floresto – pasionari indecisi – la stessa Odabella – e intriganti approfittatori consci solo della propria sete di potere – Ezio appunto. Una Italia che drammaticamente non sembra avere imparato dal suo passato e che sembra più vicina che mai nonostante i secoli di distanza. Una lettura facile quella di accomunare il devastato impero romano preda di ruberie e ladri all’attuale situazione della Nazione alla quale giustamente la regia di Daniele Abbado fugge preferendo una sorta di incontaminato/contaminato spazio temporale adatto a tutte le epoche e a tutte le nazioni, un po’ futurista – quasi stile Terminator – anche nelle sue cupe scene vuote e scarne, di Gianni Carluccio, che firma anche le luci e i costumi insieme a Daniela Cernigliaro, a rappresentare una desolazione non solo fisica, geografica, ma anche dell’anima.

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La stessa desolazione che deve provare Attila quando alla fine dell’opera si trova appeso al centro della scena, infilzato dalla sua stessa spada, donata ad Odabella nel Prologo colpito dal suo spirito guerriero e dalla sua forza morale, sotto gli occhi degli altri due artefici della sua distruzione. La desolazione dell’uomo tradito dagli altri, ma anche da se stesso. E’ come se Abbado cogliesse la vulnerabilità che Attila esprime nel Sogno del secondo atto, quando narra la visione di un “Veglio” che gli blocca la strada per Roma, per caratterizzare un personaggio noto, storicamente, per la sua ferocia, rozzezza, sfrontatezza. Una lettura ben evidenziata da Schrott, al debutto del ruolo, che sposa l’idea del regista preferendo più il tono baritonale, a volte lirico, aperto, piuttosto che quello basso cupo, più potente. Il cantante uruguaiano, noto soprattutto per le sue interpretazioni mozartiano, dal seduttore Don Giovanni agli ironici, sarcastici Leporello e Figaro, o l’infido Procida dei Vespri Siciliani, sembra qui trovare, quasi in contrasto forse con la partitura verdiana, eroica per certi versi, enfatica, toni più intimi, meditativi a volte, quasi il personaggio avesse paura di se stesso. Ecco quindi che, a parte l’Aria del sogno del secondo atto e la cabaletta, dove Schrott esprime riccamente sia l’angoscia che la baldanza del ritrovato vigore e coraggio, i duetti con Ezio e Odabella si perdono in un canto più statico e a volte inespressivo.

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Non si può dire tuttavia se ciò dipenda più dalla necessita di maturare un ruolo impervio e sicuramente dalle diverse sfaccettature vocali e interpretative, o se è la lettura di Abbado insieme ad una scelta del direttore Daniel Oren – che infatti in buca alterna, non sempre efficacemente, tempi rallentati ad esplosioni quasi vertiginose dando diverso risalto ai solisti e ai concertati. L’impressione è si di una lettura apparentemente moderna ma costruita su stilemi ottocenteschi, non riuscendo ad evolvere il rigido schema della “forma chiusa” qui non ancora totalmente superato da Verdi. La staticità delle masse corali, le disposizioni canoniche dei solisti in scena, la poca azione all’interno di uno spazio sostanzialmente vuoto, poco rivestito anche dallo stesso gioco delle luci, non aiuta a vincere la sensazione di una buona messa in scena si, ma quasi in forma da concerto. E neanche il canto quasi accademico di Simone Piazzola, troppo lirico, elegante nel suo tono baritonale per ben rappresentare il traditore Ezio e i suoi giochi politici, come anche il Floresto di Fabio Sartori, e la Odabella di Svetla Vassilieva, abbastanza a loro agio nel registro acuto anche se con qualche forzatura, ma meno precisi nei registri centrali e bassi. Attila mancava da tempo dal tempio della lirica palermitano ed è comunque, questa produzione un’ottima occasione per conoscere un’opera degli anni giovanili verdiani, unitamente ad un cast di livello. Manca forse una omogeneità maggiore tra le diverse forze messe in campo dalla produzione ma la musica di Verdi compie comunque il miracolo.

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