Ballottaggi, test delicato per il Pd in vista referendum costituzionale

Ballottaggi, test delicato per il Pd in vista referendum costituzionale
19 giugno 2016

di Alessandro Di Matteo

elezioni-comunali-italiaNon solo Milano, ma anche Torino: sarà nel nord-ovest che si giocherà la partita più delicata per Matteo Renzi in vista della sfida finale di ottobre, quel referendum sulle riforme costituzionali al quale il premier e segretario del Pd ha legato le proprie sorti e, di fatto, anche quelle della legislatura. Il risultato del primo turno ha allarmato ulteriormente Renzi, perché di fatto ha confermato ciò che a palazzo Chigi avevano già capito da tempo: il sistema tripolare creato con l’ascesa M5s sta evolvendo in una nuova forma di bipolarismo, dove però non la contrapposizione non è più destra-sinistra ma Renzi contro tutti gli altri. Uno scenario che ha suggerito al premier una linea molto low-profile in vista dei ballottaggi (niente manifestazioni con i candidati sindaco) e che preoccupa soprattutto in vista del voto di ottobre. Di fatto, lo scenario che proprio i più battaglieri della minoranza bersaniana e cuperliana avevano auspicato: un fronte anti-Renzi che si coagula e che crea una massa d’urto capace di ribaltare il risultato del referendum, o perlmeno di evitare la marcia trionfale sulla il premier-segretario aveva immaginato di costruire la prossima legislatura.

“Se dalle amministrative arrivasse un chiaro segnale contro il governo – ragionava già settimane fa un bersaniano – ci sarebbe la possibilità di coagulare tutte quelle forze al referendum. Per questo aspettiamo a prendere una posizione…”. E per questo, soprattutto, la minoranza ha precostituito nelle scorse settimane il terreno per una possibile campagna contro il referendum-plebiscito. L’idea di schierarsi per il no è sostenuta da Massimo D’Alema, mentre finora è sembrato più scettico Pier Luigi Bersani, convinto che non sia facile votare no dopo aver detto sì in aula.
Per l’ex segretario Pd, semmai, è più praticabile una sorta di disimpegno attivo, ovvero una posizione chiaramente critica che – senza arrivare ad un pronunciamento per il no – faccia chiaramente capire a tutti che il Pd non condivide l’uso (“Il plebiscito”, dirà la minoranza) che Renzi vuole fare del referendum. Una linea che non è sufficiente, secondo gli ex Pd come Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre, convinti che “a un certo punto bisognerà scegliere.

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Anche per questo l’esito dei ballottaggi è decisivo: che ci sia un vento anti-renziano è stato chiaro già dal primo turno, ma vincere a Torino e magari a Milano alla fine permetterebbe a Renzi di ripartire senza troppi danni. Anche perché il premier è convinto che per la minoranza non sarà facile schierarsi esplicitamente per il no, tanto più se alla fine le due grandi città del nord saranno rimaste al Pd e al centrosinistra. Certo, il premier potrebbe comunque essere costretto a rivedere alcuni equilibri nel partito, proprio per preparare al meglio la volata per il referendum: anche nella maggioranza renziana i malumori non mancano, sia tra i ‘giovani turchi’ di Matteo Orfini e Andrea Orlando, sia in esponenti come Sergio Chiamparino, Graziano Delrio i veltroniani… Tutte aree che non pensano affatto di mettere in discussione il segretario-premier, ma che chiedono una “gestione più collegiale”, un Pd meno affidato al solo ‘giglio magico’.

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