Cardiologi, i poveri più a rischio di ammalarsi di cuore

Cardiologi, i poveri più a rischio di ammalarsi di cuore
27 agosto 2016

Le persone che vivono in condizioni di povertà, aggravate dalla crisi economica degli ultimi anni, corrono un rischio maggiore di ammalarsi di patologie cardiache, che anche per questo rappresenteranno il maggior problema sanitario dei prossimi anni nei paesi occidentali. E’ uno dei temi che verrà affrontato durante il Congresso europeo di cardiologia (Esc Congress 2016) che si è aperto questa mattina alla Fiera di Roma. “La povertà e la crisi economica induce una grossa fetta della popolazione a modificare le abitudini alimentari, e spesso a recarsi in iper-discount e acquistare alimenti ricchi di acidi grassi e grassi saturi che peggiorano lo stato di salute cardiovascolare aumentando il rischio di ipercolesterolemia”. Proprio l’eccesso di colesterolo “è il principale killer che provoca casi di infarto e ictus”, sottolinea il cardiologo, rivelando che “una percentuale tra il 45% e il 49% degli italiani non ha idea di quale sia il suo valore di colesterolo: se è passato il messaggio che la pressione alta fa male, altrettanto non è accaduto per l’ipercolesterolemia”.

Inoltre, “gli effetti della crisi colpiscono anche l’assistenza cardiovascolare cosi come fino a oggi è stata organizzata: la spending review degli ultimi anni ha portato a una riduzione di strutture sanitarie dotate di cardiologia, posti letto, cardiologie interventistiche e questo riduce l’offerta a fronte di una crescente domanda, perché ci si ammala di più di malattie cardiovascolari”, osserva Gulizia, evidenziando che la povertà si riflette anche sulla salute di chi già soffre di cardiopatie: “spesso queste persone hanno bisogno di farmaci non totalmente rimborsati dal servizio sanitario nazionale, non hanno le risorse per pagarli” e quindi non riescono a “provvedere adeguatamente alle proprie cure”. Durante il congresso verrà anche presentato uno studio svedese che conferma come il basso reddito è un indicatore di rischio in una popolazione con una malattia coronarica stabile successiva a infarto.

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