Discriminazione sul lavoro: estromessa perché incinta, azienda condannata
Fine dell’incubo per una lavoratrice trentina che, dopo una battaglia legale durata quasi quattro anni, ha ottenuto giustizia contro la multinazionale che l’aveva allontanata all’annuncio della gravidanza. La Corte d’Appello di Trento ha infatti emesso una sentenza destinata a fare giurisprudenza, condannando la Dana per discriminazione di genere.
I fatti risalgono al settembre 2021, quando la donna, impiegata nel settore contabilità con contratto interinale a scadenza 2049, fu costretta a comunicare all’azienda la sua gravidanza a rischio. La reazione fu immediata: interruzione della missione e rinvio alla Manpower, agenzia di somministrazione che, nell’impossibilità di ricollocarla proprio a causa dello stato interessante, le garantì solo un’indennità di mancata missione – ben inferiore al salario pieno che le sarebbe spettato di diritto.
Determinante per l’esito positivo della vicenda l’intervento dell’avvocata Sonia Guglieminetti, affiancata da Fiom, Nidil e Ufficio Vertenze della Cgil.
Una difesa contraddittoria
Messa alle strette dai sindacati, Dana tentò inizialmente di trincerarsi dietro cavilli burocratici, sostenendo con fermezza “l’assenza di obblighi verso lavoratori interinali, formalmente dipendenti di altre aziende”. Una linea difensiva poi drasticamente rivista in tribunale, dove la multinazionale attribuì il licenziamento a presunte “esigenze di ristrutturazione aziendale”, bollandosi come “mera coincidenza” sia la gravidanza della lavoratrice sia l’identico provvedimento adottato verso un’altra dipendente interinale, anch’essa in dolce attesa.
Una versione che non ha retto al vaglio della Corte d’Appello trentina, che ha smascherato la strategia discriminatoria: in un organico di circa mille persone, le uniche due estromesse risultavano proprio le lavoratrici in gravidanza.
Precedente che cambia le regole del gioco
La sentenza spazza via ogni ambiguità in materia: la tutela della maternità è un diritto inviolabile che prescinde dalla tipologia contrattuale. Per questo, i giudici hanno imposto alla Dana di corrispondere alla ricorrente il 100% della retribuzione fino al compimento del primo anno del bambino, oltre a un consistente risarcimento per i danni morali subiti.
“È la dimostrazione che parità di genere e tutela della maternità non possono ridursi a slogan nelle brochure aziendali, ma richiedono comportamenti concreti”, tuonano all’unisono Michele Guarda e Giulia Indorato, vertici di Fiom e Nidil del Trentino. “Il fatto che un episodio così grave si sia verificato in una multinazionale rende la vicenda ancora più allarmante”, hanno aggiunto con tono accusatorio.
“Confidiamo che questa pronuncia segni l’inizio della fine per lo staff leasing e per l’abuso sistematico del precariato”, ha concluso con determinazione Guarda, “pratiche che calpestano la dignità dei lavoratori e azzerano decenni di conquiste sindacali”.
Nel frattempo, la sentenza della Corte d’Appello di Trento segna un punto di svolta non solo per la diretta interessata, ma per tutti i lavoratori con contratti atipici: il messaggio è chiaro e inequivocabile, i diritti fondamentali non conoscono precarietà.