Francesca ha perso il padre e denuncia il “caos”

8 maggio 2020

Ritardi, mancanza di coordinamento e di una linea organizzativa comune da seguire. Una gestione “schizofrenica”, con “un’anarchia di pseudo direttive e informazioni incomplete” l’ha definita Francesca Pariboni, avvocata 29enne romana, raccontando la storia della sua famiglia contagiata dal coronavirus e alla ricerca disperata di un tampone a Roma. Suo padre, 59 anni, è morto in ospedale. Ma prima di arrivarci, dai primi sintomi il 30 marzo, sono passati giorni fatti di telefonate alla Asl e al numero 1500 per l’emergenza. “Facendo questo numero speravo che qualcuno mi desse delle risposte, ma tutti i giorni ricevevo risposte molto vaghe che non mi indirizzavano verso una soluzione, non sapevo se portare mio padre in ospedale perché avevo paura che se non lo avesse avuto lo avrebbe contratto lì il virus, non sapevo che fare, chiamavo tutti i giorni e prendevano i miei dati e li passavano a operatori di secondo livello, mi dicevano che i sintomi erano troppo generici per pensare al coronavirus che è un virus farmaco-resistente e quindi il fatto che la tachipirina faceva abbassare la febbre faceva pensare a un altro tipo di influenza”.

Il padre, malato oncologico, aveva dovuto sospendere la terapia in ospedale per la febbre, quindi era importante fare un tampone anche per riprendere rapidamente le cure. Anche la madre, intanto, iniziava a perdere sensibilità olfattiva; tutte cose segnalate al telefono. Ore di attese al centralino, linee che cadono, ansia che aumenta. Un operatore le dice persino che il suo medico di base avrebbe dovuto inviare una mail per prescrivere il tampone al padre alla Asl. Il medico ne manda diverse di mail, nessuna risposta. Infine il 6 aprile lo zio porta a casa un saturimetro e la situazione del padre di Francesca risulta drammatica. La corsa in ospedale e il ricovero. La TC evidenzia subito il Covid-19, così come il tampone. Il padre muore però dopo pochi giorni. La madre, positiva al tampone anche lei, viene ricoverata. In ospedale vengono fatti i tamponi anche a Francesca e al fidanzato, entrambi positivi e messi in isolamento a casa. Diversi giorni dopo, la Asl chiama per il tampone del padre; non sapeva che fosse stato ricoverato, né che tutta la famiglia fosse positiva. “Quando mi hanno chiamata loro non erano a conoscenza della mia positività quindi mi sono autosegnalata. E da allora ogni giorno ricevevo una chiamata da diversi funzionari per inserirmi nei database per i tamponi di riscontri, ma non ho capito da chi ero presa in carico perché mi chiamavano sempre numeri diversi”.

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Numeri e persone diverse, ogni volta ripartendo da zero. Nessuno, dice Francesca, si è mai sincerato dei suoi sintomi e del suo stato di salute a casa. “Quando abbiamo fatto il tampone di riscontro il risultato non ci è stato comunicato tempestivamente, io e il mio fidanzato siamo rimasti a casa a contatto e lui era negativo, io positiva, questo perché il primo maggio non rispondeva nessuno perché erano in ferie, ce lo hanno detto loro”. Inoltre, suo zio, si è recato per scrupolo allo Spallanzani per un tampone dopo 15 giorni di periodo di sorveglianza come prescritto dalla Asl, ma è risultato positivo. Protocolli insufficienti, dice Francesca. “Da 35 giorni io sono positiva ufficialmente, forse lo ero da prima e lo sarò ancora, quei 15 giorni precauzionali sono insufficienti per la maggior parte delle persone; questo mi sembra un dato venuto fuori abbastanza chiaramente ormai”. Ma se manca il dialogo tra ospedale e asl, manca un’organizzazione regionale, un coordinamento con i medici di base, oltre alla paura del contagio, come si deve comportare un potenziale contagiato? E questo accade a Roma.

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