La coerenza delle contraddizioni, un ritratto mobile di Battiato

La coerenza delle contraddizioni, un ritratto mobile di Battiato
Franco Battiato
18 maggio 2021

Erano i primi anni Novanta, al Teatro Lirico di Milano un’orchestra accompagnava con solennità il concerto di Franco Battiato, in una fase molto mistica della carriera del cantautore siciliano. Alcune delle sue canzoni più famose e più amate erano state bandite dalle scalette, anche se, compostamente seduto nelle eleganti poltrone, al pubblico era stato consentito di intonare il ritornello de “Gli uccelli”, con l’accompagnamento di una schiera di archi di prim’ordine. A qual quanto qualcuno dalla platea aveva speranzosamente invocato l’esecuzione di “Voglio vederti danzare”, ma Battiato era stato inamovibile: “Magari dopo, in strada”, aveva replicato allo spettatore. Avevamo tutti applaudito alla battuta, ma erano sorrisi che nascondevano, seppur bene, una certa delusione.

Ancora una volta il cantautore aveva scelto di cambiare pelle, di gettare via qualcosa del suo passato, di alimentare quella ricerca costante che, oggi lo possiamo scrivere, è stata l’alimento principale della sua straordinaria carriera nella musica leggera italiana, qualunque cosa quel “leggera” voglia dire (e viene in mente la musica “leggerissima” di Colapesce e Di Martino all’ultimo Sanremo, parola questa che forse non avremmo avuto il coraggio di pronunciare di fronte a Battiato). Un’inquietudine formale e personale, un desiderio onnivoro di scenari culturali e di mondi, una fascinazione costante per i diversi Orienti del mondo, ma con un cuore rock, con una tenace rimodulazione di un’idea di avanguardia che lo ha accompagnato per tutta la vita, da “Up Patriots to Arm” fino alle splendide cover della serie dei “Fleurs”, da cui, oggi che Franco Battiato se ne è andato, non possiamo non rubare, come Attilio Bertolucci con Baudelaire, due versi altrui: “Tutto l’universo obbedisce all’amore / come puoi tenere nascosto un amore”.

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Benché sia difficile immaginare un autore più lontano dalla linea Battisti-Mina della musica italiana, anche per Battiato, alla fine, la parola “amore” resta decisiva. Ma la sua grandezza – che sta, se proprio dobbiamo giocare alle classifiche, accanto a quella di un De Gregori – la si trova nella costante diversità dei suoi amori, che vanno dai danzatori Sufi ai “vetri cattedrale del gazebo” in una villa siciliana, dalla spiaggia di Grado all’Oceano di silenzio, dalla fisiognomica agli “incensi di Dior”. Insomma una costante rimodulazione degli orizzonti, una geografia personale totalizzante, ma che spesso ha proceduto per comparti definiti, per ossessioni successive cullate, amate, difese, rivendicate e poi abbandonate, in nome del sacrosanto diritto di cambiare idea, il tutto, sempre, con la stessa “grazia innaturale” con cui descriveva in una delle sue canzoni più belle – “Prospettiva Nevskij” – il ballerino Nijinsky. “E poi di lui s’innamorò perdutamente il suo impresario E dei Balletti russi”.

Gli innamoramenti di Battiato sono stati tanti quanti le sue avversioni. Poi, con il tempo, tutto si è andato rimescolando e l’autore di un pezzo causticamente anticlericale (e anti quasi tutto in realtà) come “Magic Shop” è stato anche il cantante de “L’ombra della luce”, per il quale oggi arrivano le note di cordoglio di alti prelati vaticani; il giovane che si era ribellato alla Sicilia diventando un protagonista della scena underground milanese è lo stesso che ha poi composto un brano assolutamente magnifico in siciliano, “Veni l’Autunnu”; colui che ha cercato per sempre un “Centro di gravità permanente” ha alla fine ammesso che l’animale che si portava dentro lo rendeva schiavo delle sue passioni. E chi cantava “sul ponte sventola bandiera bianca” è lo stesso uomo che poi, altrove, scriveva che “siamo niente, dei miseri ruscelli senza fonte”. Contraddizioni, mutamenti, il coraggio e la forza di essere se stesso attraverso le differenze, le evoluzioni, i ripensamenti. E sì, dopo il 1993 “Voglio vederti danzare” l’ha cantata ancora, non soltanto in strada per quello spettatore coraggioso e un po’ insolente.

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In oltre 50 anni di carriera Franco Battiato ha anche influenzato la cultura italiana in molti modi. Forse quello più intrigante è legato al modo in cui Nanni Moretti ha usato le sue canzoni in film come “Bianca” (nella scena malinconica e surreale in cui Michele Apicella si stende sopra una ragazza in spiaggia e viene, ovviamente, malmenato) oppure in “Palombella Rossa”, con lo stesso alter ego del regista romano che intona “E ti vengo a cercare” prima in una tribuna politica in tv e poi nello stadio della pallanuoto. Due immagini che dicono quasi tutto quello che ci sarebbe da dire oggi e che, contemporaneamente, non dicono molto altro, ma non importa, perché così si è anche sempre mosso Battiato. E se vogliamo provare a capirlo, per quanto possibile, conviene avvicinarsi al suo modo di procedere per analogie e momenti successivi diversi, come se parlassimo di fisica quantistica.

Un ultimo appunto: l’influenza sugli altri musicisti. E’ probabile che Franco Battiato sia stato il cantautore italiano che più ha influenzato le generazioni venute dopo di lui e, in virtù di quel suo sguardo nomade, la sua lezione ha raggiunto artisti e band molto diversi, da Alice ai Baustelle, ma perché non Achille Lauro e i Coma_Cose? Battiato era un mondo e nel suo roteare come un derviscio alla ricerca della perfetta staticità nel più forsennato dei movimenti ha diffuso un’aura, dei semi, delle domande che continuano a propagarsi come onde in un sistema chiuso, ma spalancato verso un’idea di infinito. “Ho attraversato la vita inferiore Seguendo linee per moto contrario Sfruttando per le mie vele Flussi di controcorrente Cercando sempre le cause Che mi hanno insegnato ad andare Con disciplina anche contro le mie inclinazioni”.

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Sono versi di “Running against the grain”, che oggi proviamo a usare come un ultimo saluto, pensando a quel astronauti che si preparavano a raggiungere la Via Lattea, in un mondo che pure ripeteva il ritornello “No Time, No Space”, cantandolo in inglese, ma forse pensandolo in siciliano, come un sogno di Baudelaire recitato dalla voce di Manlio Sgalambro. “Laggiù tutto è ordine e bellezza, calma e voluttà”. askanews

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