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Papa Francesco

Vi è una sottile, lancinante ironia nel crepuscolo di questo pontificato. Francesco, l’uomo che ha fatto della parola uno strumento chirurgico per incidere le coscienze, si congeda in un mondo che ha saputo celebrarne la figura più che ascoltarne il messaggio. Il paradosso si consuma nell’affollato palcoscenico del cordoglio ufficiale, dove si affacciano con studiata mestizia proprio coloro che hanno sistematicamente ignorato i suoi appelli. Le stesse mani che hanno armato conflitti si alzano ora in segno di rispetto verso chi del disarmo aveva fatto una questione non negoziabile.

Francesco ha attraversato il nostro tempo con la delicatezza sovversiva di chi comprende che la vera autorità non risiede nella porpora, ma nella capacità di spogliarsi di ogni orpello. Un pontefice che ha fatto della prossimità agli scartati non un’occasionale esibizione di virtù, ma il fulcro di un magistero incarnato nelle periferie dell’anima e della società. La sua è stata una rivoluzione dell’accoglienza; un’ermeneutica del dialogo che non teme di sostare nelle domande prima di precipitarsi verso risposte preconfezionate.

Se il suo predecessore abitava le altitudini rarefatte della teologia, Francesco ha scelto di camminare nei bassopiani della quotidianità, dove la dottrina si contamina necessariamente con la polvere dell’esistenza. Nella sua gestualità, sempre sobria eppure eloquente, si è materializzata una Chiesa che rinuncia al privilegio dell’ultima parola per rivendicare il primato dell’ascolto. Quella sua celebre domanda – “Chi sono io per giudicare?” – non era il sintomo di una fede annacquata, come hanno frettolosamente concluso i custodi dell’ortodossia, ma il seme di una spiritualità adulta, capace di accogliere la complessità senza rifugiarsi nel conforto delle semplificazioni.

Il suo essersi chinato sugli ultimi non era populismo teologico, ma lucida consapevolezza che là dove l’umanità sembra svanire, proprio lì si manifesta più nitidamente il volto dell’Assoluto. In quel “Dio vive qui” pronunciato a Scampia si condensa l’essenza di un cristianesimo che non teme di sporcarsi le mani con le contraddizioni della storia. Ora che la sua voce si è spenta, le sue parole acquistano una paradossale potenza. Tocca a noi impedire che il silenzio che segue alla sua dipartita diventi il sigillo di una profezia inascoltata. La più raffinata forma di omaggio che possiamo tributargli non consiste nella retorica del ricordo, ma nell’ostinata fedeltà a quella rivoluzione della tenerezza che ci ha indicato come unica via percorribile in un mondo lacerato.