Motivi di sicurezza, ipotesi trasferimento a Roma per Di Matteo. I piani per uccidere il pm

Motivi di sicurezza, ipotesi trasferimento a Roma per Di Matteo. I piani per uccidere il pm
11 ottobre 2016

Il sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, Nino Di Matteo, uno dei Pm del processo per la trattativa Stato-mafia, e’ stato sentito dalla Terza Commissione del Consiglio superiore della magistratura. L’audizione e’ stata secretata. Secondo indiscrezioni, il Csm starebbe vagliando l’ipotesi di un trasferimento di Di Matteo per ragioni di sicurezza. Il magistrato potrebbe essere assegnato alla Direzione nazionale antimafia (Dna). Prima di essere ascoltato dalla Commissione, Di Matteo ha avuto un colloquio con il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini. Nino Di Matteo non vuole dire nulla. Nessuna dichiarazione ufficiale. Ma certo la “convocazione ad horas” da parte del Csm non e’ stata indolore. Ci sarebbero nuovi riscontri, piu’ recenti, riguardo ai progetti su un attentato ai suoi danni. Anche nel marzo del 2015 fu formulata una proposta di trasferimento per motivi di sicurezza che il pm palermitano rifiutò.

I PIANI PER UCCIDERE PM “Questo pubblico ministero di questo processo, che mi sta facendo uscire pazzo, come non ti verrei ad ammazzare a te, come non te la farei venire a pescare, a prendere tonni. Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono. Ancora ci insisti? Minchia…. perche’ me lo sono tolto il vizio? Me lo toglierei il vizio? Inizierei domani mattina”. Cosi’ il 26 ottobre del 2013 Toto’ Riina si rivolgeva al boss pugliese Alberto Lorusso parlando del pm Nino Di Matteo, impegnato nel processo Stato-mafia, come si legge nei verbali depositati nel procedimento. Le notizie circa piani per uccidere il magistrato negli anni si sono moltiplicate. Minacce precise, confermate da piu’ fonti e ripetute, in forza delle quali il Csm adesso starebbe vagliando l’ipotesi di un trasferimento del magistrato per ragioni di sicurezza. Di Matteo, in una intervista aveva dato una precisa chiave di lettura: “In realta’ queste non sono minacce. Riina e’ stato ascoltato mentre, inconsapevole di essere ascoltato, pronunciava prima delle parole rabbiose nei miei confronti ma poi dei veri e propri ordini di morte che cercava di far pervenire all’esterno”. Insomma, si trattava di precisi ordini di ucciderlo. Secondo Di Matteo “ogni qual volta che si alza il livello delle indagini e si esce dal perimetro dell’ala militare di Cosa nostra, si da’ fastidio ad ambienti esterni e alla stessa organizzazione mafiosa. Riina probabilmente non accetterebbe l’eventualita’ che vengano fuori dal processo e dalle indagini ipotesi di accordo e di cooperazione con entita’ esterne”. In un’altra occasione aveva sottolineato di essere convinto “che ci sia una sola mano dietro le ripetute minacce ai danni di diversi magistrati palermitani. Una sola matrice, riferibile a qualcuno che intenda destabilizzare la nostra serenita’ e attivita’, generando in noi una percezione di vulnerabilita’”. Proseguendo nel suo sfogo Riina in carcere non riesce a trattenere il suo odio: “Questo Di Matteo, questo disonorato, questo prende pure il presidente della Repubblica. Questo, questo prende un gioco sporco che gli costera’ caro, perche’ sta facendo carriera su questo processo di trattativa… Se gli va male questo processo lui viene emarginato”. E ancora: “Io penso che lui la paghera’ pure… Deve succedere un manicomio, deve succedere per forza. Organizziamola questa cosa”, prosegue mimando con la mano il gesto di fare presto, “facciamola grossa e non ne parliamo piu’. Si devono preoccupare, nonostante questo mucchio di persone: il botto viene ancora piu’ bello… piu’ grosso. Mi guarda Di Matteo, con gli occhi puntati, ma a me non mi intimorisce”.

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polizia mafia diaPiu’ recentemente il collaboratore di giustizia Vito Galatolo ha parlato di un preciso progetto di attentato, confermato appena nell’aprile scorso da un imputato non pentito, Camillo Graziano, 49 anni. A chiedere di uccidere il pm, “che si stava spingendo troppo oltre”, sarebbe stato il superlatitante Matteo Messina Denaro, chiamato confidenzialmente da Galatolo “il nostro fratellone”. Intervenendo in aula al termine dell’interrogatorio di Galatolo, Graziano ha reso spontanee dichiarazioni al processo ‘Apocalisse’, davanti alla quarta sezione del tribunale di Palermo: “Non fui io a prendere, di mia iniziativa, i contatti con il pentito Salvatore Cucuzza (che avrebbe dovuto fare da basista per gli attentati). La richiesta parte da lui (Vito Galatolo, ndr), perche’ quella e’ la verita’. La richiesta parte solo ed esclusivamente da lui. E purtroppo non potevo, per paura e per timore, esimermi dal farlo. Quella e’ la verita’. Di questo ho parlato con i pm di Caltanissetta”, che indagano sui progetti di uccidere il pm palermitano. L’udienza si era tenuta in trasferta a Torino, per motivi di sicurezza. Ed era la prima volta che al controverso racconto di Galatolo arriva una conferma da un ex presunto affiliato alla sua cosca, quella dell’Acquasanta: conferma rilevante, perche’ Graziano non collabora con i magistrati. Davanti al collegio presieduto da Vittorio Alcamo, il nipote del costruttore Vincenzo Graziano (l’uomo che, secondo Galatolo, avrebbe nascosto l’esplosivo per colpire Di Matteo) ha voluto “difendersi” dall’accusa di avere suggerito di utilizzare Cucuzza, pentito del clan di Porta Nuova, ma fino al momento della morte, avvenuta nel 2014, rimasto legato ai Graziano, con i quali aveva affari in comune. Proprio Cucuzza avrebbe dovuto dare indicazioni sui pentiti che vivono a Roma (e fra di loro Galatolo voleva colpire la propria sorella Giovanna, “onta” della famiglia) ma anche chiedere un interrogatorio al pm del processo sulla trattativa Stato-mafia: a causa delle condizioni di salute che poi ne provocarono la morte, il pentito avrebbe potuto ricevere il magistrato a casa e li’ si sarebbe potuto organizzare l’attentato, utilizzando armi da guerra che Camillo Graziano, abitante a Udine, avrebbe comprato in Slovenia e tenuto nascoste in Friuli. “Quella di colpire il magistrato nella Capitale – ha spiegato Galatolo – era la terza opzione, dopo il furgone imbottito di tritolo con cui volevamo colpirlo al palazzo di giustizia e dopo l’agguato nella localita’ di villeggiatura frequentata da Di Matteo, nell’hinterland palermitano”.

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“Sta andando troppo avanti e si deve fermare. Dobbiamo organizzare un attentato al pm Di Matteo. Se ve la sentite ditelo a Mimmo Biondino”. Questo era scritto nella lettera che Vito Galatolo ha letto il 9 dicembre 2012, nel corso di un summit a Palermo. La missiva sarebbe stata proprio di Matteo Messina Denaro il quale avrebbe voleva uccidere il magistrato perche’ col processo sulla trattativa si era spinto “troppo oltre” ma voleva vendicarsi anche di due pentiti, Gaspare Spatuzza e Nino Giuffre’. Galatolo – rispondendo alle domande dell’aggiunto Vittorio Teresi – ha detto: “Di Matteo si stava intromettendo in un processo che non doveva neanche iniziare, quello sui rapporti tra Stato e mafia. E si doveva fermare – ha detto Galatolo, riferendo cio’ che gli disse Mimmo Biondino – perche’ non doveva scoprire certe situazioni”. Galatolo sta anche esprimendo le sue “perplessita’” sul progetto in particolare per il fatto che Messina Denaro avrebbe messo a disposizione un artificiere: “ma noi non dovevamo sapere chi fosse, il suo nome, il suo cognome, da dove venisse. Io e D’Ambrogio (capo della famiglia di Palermo Centro) – ha detto – eravamo molto indecisi. Se l’uomo di Messina Denaro fosse stato di cosa nostra avremmo dovuto sapere tutto su di lui. Fare un atto cosi’ eclatante senza sapere chi fosse coinvolto – ha detto – era impossibile. Non esiste una cosa del genere”. Secondo Galatolo dietro Matteo Messina Denaro – e attraverso la presenza di un soggetto esterno ignoto – c’era altro: “non era una cosa solo di Messina Denaro – ha detto – ma ci doveva essere qualcuno al di fuori, esterno all’organizzazione. E l’obiettivo era far vedere a tutti che la mafia era ancora viva”. Una situazione pesante, tanto da fare scattare misure eccezionali di protezione per il sostituto palermitano, la “personalita’” piu’ protetta, d’Italia, al pari del presidente del Consiglio: nove carabinieri del Gis, tre suv blindati, di cui uno dotato di bomb jammer, il dispositivo capace di inibire i telecomandi a distanza. Un sforzo enorme a tutela di un Pm molto esposto e per il quale, sulla base delle valutazioni del Csm, potrebbe essere arrivato il tempo di lasciare Palermo dopo anni di grande impegno e tensione. (con fonte Agi)

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