Il Pd fatica nelle città, ma per Renzi ora è cruciale Milano

Il Pd fatica nelle città, ma per Renzi ora è cruciale Milano
7 giugno 2016

di Giuseppe Novelli

E’ scattata l’allerta a largo del Nazareno e certo non per l’esclusione dal ballottaggio di Valeria Valente a Napoli. Certo, il premier aveva sperato di riuscire ad andare al secondo turno anche in quella città, ma sono altri i problemi con i quali i democratici si trovano ad avere a che fare perché Roma sembra ora una “impresa disperata”, come dice uno degli uomini vicini al premier, e Milano “è una partita aperta, apertissima”. Se poi si considera che anche a Torino e Bologna i candidati Pd sono andati al di sotto delle attese, si capisce bene perché lo stesso Renzi dica pubblicamente: “Non sono contento”. E’ vero che Renzi prova ad attutire l’immagine negativa con i numeri (“Su 1.300 Comuni al voto, quasi 1.000 avranno un sindaco Pd o di area Pd”) ed è anche vero che nelle più grandi città dove si è votato il calo dei voti del partito è assolutamente proporzionale al calo dell’affluenza che ha danneggiato anche le altre forze politiche, M5s a parte. Ma è indiscutibile che a questo punto Milano farà la differenza. “Se perdiamo Milano sono cavoli”, dice schiettamente il parlamentare vicino a Renzi. Sarebbero “cavoli” perché la minoranza interna, a quel punto, attaccherebbe a testa bassa e perché il fronte anti-Renzi comincerebbe a prendere coraggio in vista del referendum. “E sarà lì che si definiranno gli assetti politici in vista delle elezioni politiche”, continua il renziano.

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Il partito perde voti un po’ ovunque, e questo può essere fisiologico se si considera che c’è un calo dell’affluenza più o meno della stessa entità: a Torino i votanti sono diminuiti del 16% e il Pd ha perso il 22% dei voti rispetto al 2011 (ma la lista civica collegata a Fassino ha preso 14mila voti contro i 4mila e 500 del 2011); a Milano il Pd perde il 14%, mentre l’affluenza è calata addirittura del 18% e la lista civica ha comunque raccolto 15mila voti in più del 2011; a Bologna il Pd perde il 17% dei voti, in linea col calo dell’affluenza pari proprio al 17%, e c’è da scontare anche la rottura a sinistra. Un caso a parte è Roma, dove il partito crolla del 25% nonostante un aumento del 7% dell’affluenza, ma nella capitale vanno considerate le conseguenze dell’inchiesta Mafia capitale e la rottura traumatica con Ignazio Marino. Il dato politico, però, va oltre il solo raffronto numerico. Fassino nel 2011 vinse al primo turno, mentre stavolta non è arrivato nemmeno vicino al 50%, Merola è addirittura rimasto sotto il 40% e il margine di Sala su Parisi era stimato al Nazareno di 4-5 punti, anziché quello 0,8% striminzito che poi è emerso dalle urne. A Roma, poi, Giachetti è andato in fondo secondo le aspettative (“Ha fatto un mezzo miracolo”, ha detto Renzi) ma la Raggi ha superato ogni previsione, è andata ben oltre quel 30% che i sondaggi riservati in mano al Pd le attribuivano come tetto massimo.

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Si capisce dunque perché il premier insista sulla rilevanza solo locale del voto, neghi pubblicamente una lettura nazionale, auspichi ballottaggi in cui gli elettori scelgano il candidato che preferiscono senza giochini da “politique politicienne”. Il timore, al Nazareno, è che l’avversione per Renzi e il governo saldi al ballottaggio “due soggetti diversissimi ma uniti solo dall’odio per il Pd”, con gli elettori di M5s e destra che convergono sul candidato anti-Dem. I veri conti si faranno dopo il ballottaggio, perché anche un esponente della sinistra del partito ammette: “Se vince Milano, lui potrà dire di aver tenuto, di essere andato al ballottaggio a Roma dove pareva impossibile, etc… Se dovesse perdere Milano noi gli presenteremo il conto”. Ovviamente, tutto questo dando per scontato che alla fine Torino e Bologna restino al Pd, come dicono ancora uomini vicini a Renzi. Perché in caso contrario sarebbero davvero “cavoli”.

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