Ronald Garros, Amanda la prima 2000 in una semifinale Slam

Ronald Garros, Amanda la prima 2000 in una semifinale Slam
Amanda Anisimova
7 giugno 2019

Amanda Anisimova e’ la protagonista dell’ultima favola del tennis, l’emblema di uno sport sempre piu’ fisico ed essenziale, e sempre piu’ Pret-a-porter. A Parigi, non solo domina, da appena numero 51 del mondo, la regina uscente del Roland Garros, Simona Halep, finalista nel 2017 ed ex numero 1 del mondo, non solo si qualifica alle semifinali del secondo Slam stagionale, ad appena 17 anni – piu’ giovane da Nicole Vaidisova nel 2006, piu’ giovane statunitense da Jennifer Capriati nel 1993 e prima tennista ‘millennial’ in assoluto ad arrivare nei quarti Majors -, non solo promette (o minaccia?) di avere un futuro ultra-radioso, ma conferma una realta’ terribilmente scomoda per allenatori e manager: il tennis e’ sempre piu’ un business di famiglia.

Soprattutto al femminile. Sulla scia delle pioniere, Monica Seles, Anna Kournikova e Maria Sharapova, tutte figlie dell’Est come lei, di cui rappresenta la perfetta sintesi: forcing feroce con colpi pesanti e asfissianti da fondocampo alla conquista di ogni spazio, treccione biondo, nasino all’insu’, bei lineamenti, sguardo altero e un po’ altezzoso di chi non deve chiedere mai, senza pero’ quegli antipatici e noiosi gemiti d’accompagnamento ad ogni colpo. Cosi’ serve un cocktail davvero esplosivo. Oggi, quelle esperienze dei padri venuti dall’Est Europa per realizzare i propri sogni nel nome delle figlie non sembrano piu’ cosi’ azzardate e pericolose, si sono affinate, negli anni del web, della sperimentazione, dell’esaltazione del fattore motivazionale. Nutrendosi e moltiplicandosi grazie ai guadagni sempre piu’ sostanziosi, di montepremi e sponsor.

Papa’ Kostantin Anisimov emigra nel 1998 dalla Russia agli Stati Uniti inseguendo l’Eldorado, con una specializzazione in finanza e industria bancaria. Poi, pur senza alcun pedigree di sport agonistico, individua un talento tennistico speciale nella primogenita Maria di 10 anni, e la spinge, la incita, la allena persino, insieme alla moglie Olga. Invano, perche’ quella preferisce studiare all’Universita’ della Pennsylvania e lascia in eredita’ alla sorellina Amanda, nata nel New Jersey praticamente con la racchetta in mano – l’ha imbracciata gia’ a due anni -, il sacro fuoco della passione e anche la pressione delle aspettative di un’intera famiglia. Per cui papa’ devia gli investimenti come fa nelle sue speculazioni finanziarie e sposta tutta la famiglia in Florida alla ricerca della palestra e degli allenatori migliori, transitando per il guru Nick Saviano (chioccia di una trentina di atleti, le ultime Bouchard e Stephens) e Max Fomine (gia’ coach itinerante dei fratelli Bryan), quando la piccola ha 11 anni.

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La piccola, oggi, e’ cresciuta fino ai 180 centimetri d’altezza, e infatti Chris Evert, la capostipite delle attaccanti da fondocampo di matrice Usa, rifiuta il pur stuzzicante paragone. La ‘piccola’ vince da subito, diventa numero 2 delle juniores nel 2016, a quattordici anni e mezzo, grazie alla finale del trofeo Bonfiglio di Milano e del Roland Garros, e l’anno dopo domina gli Us Open 2017 senza perdere un set in tutto il torneo. Subito competitiva anche a livello pro, si fa le ossa a livello di tornei Itf, scalando la classifica mondiale – numero 761 nel 2016, numero 192 nel 2017, numero 95 a fine 2018 – ed esplodendo come un uragano. Col libro dei record di precocita’ sotto il braccio. L’anno scorso, e’ la piu’ giovane ad arrivare negli ottavi a Indian Wells dopo Iva Majoli nel 1994, infilando Pavlyuchenkova e Kvitova. Poi si fa male, fa di nuovo parlare di se’ a settembre, con la finale di Hiroshima persa con Hsieh, sempre a botte di record di precocita’. E, a gennaio, agli Australian Open, a 17 anni e 5 mesi, e’ la piu’ ‘verde’ agli ottavi, agganciando Vaidisova che c’era riuscita nel 2006. Sulla scia, a Bogota’, mette la prima firma sul circuito Wta, proprio nel paese di Jaime Cortez, il secondo coach, dopo papa’, che la segue insieme all’altro tecnico, Andis Juska, e al preparatore atletico Yutaka Nakamura.

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Un team nel segno della globalizzazione dei nostri tempi. La madre terra aiuta il suo tennis nato sul cemento, quantunque non lo frequentasse dall’infortunio che l’aveva tenuta fuori gioco per quasi quattro mesi, per una frattura da stress al piede che ha avuto bisogno di una guarigione attentissima. “Da junior, ho frequentato tanto la terra, anche in Sud America, e mi ci sento forte. E’ la mia superficie preferita, anche se e’ sorprendente per me vincere il mio primo titolo sul rosso, dopo due anni che non ci giocavo. Questo moltiplica la mia fiducia perche’ sulla terra devo essere molto piu’ paziente che sul cemento, dove uso piu’ anticipo. Ci ho lavorato molto: oggi riesco a mixare, a essere un po’ piu’ attendista”. Proclama lei, sicura, bravissima davanti al microfono, ideale portavoce della NextGen donne: “E’ una grande motivazione essere in tante, cosi’ giovani e competitive, da tempo, ci conosciamo benissimo, ci sfidiamo da sempre, siamo cresciute e migliorate cosi’ tanto e in cosi’ poco tempo, e sappiamo che dietro ce ne sono altre ancora che incalzano. I record? Non so chi abbia fatto cosa e quando, non mi interessa, il penso soprattutto al mio gioco”.

Una cosi’ sicura e’ destinata a spiccare nei grandi tornei. E non s’impressiona se agli Australian Open di gennaio arriva al quarto turno infilando le piu’ quotate Niculescu, Tsurenko e Sabalenka, ne’ se a Roma, tropo sollecitata dalla sfida di secondo turno contro Kiki Bertens, smarrisce il dritto e si incaponisce a giocare quasi solo con quel colpo finendo per perdere malamente. Ha con se’ la forza del destino, e anche Serena Williams, il suo idolo, se ne accorge. Tanto che l’abbraccia e la conforta – “Da madre”, negli spogliatoi di Miami quando la bimba si lascia un po’ andare per la delusione del ko del secondo turno con Kontaveit. “Ho avuto un match duro, molto lungo, l’ho perso ed ero davvero molto giu’. Serena e’ venuta da me e abbiamo chiacchierato un po’. E’ stato molto carino da parte sua, non lo dimentichero’ mai”.

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Amanda e’ una macchina da guerra, s’allena tanto e bene, da sempre, e impara in fretta, coprendo i suoi buchi neri, l’ultimo a rete, dove si presenta appena puo’ per finalizzare la pressione da fondo. Del resto l’aveva promesso, con quel visino dolce e quelle labbrucce da pubblicita’: “Voglio diventare la numero 1 del mondo e vincere tutti gli Slam”. E ribadisce continuamente il suo concetto-guida, alla Nadal: “Da sempre, prendo un match alla volta e penso solo a quello, vediamo dove mi portera’ la prossima partita. In questo tennis tutte possono battere tutte, non sai mai cosa puo’ succedere”.

A Roma, appena il 13 maggio, aveva perso nelle qualificazioni contro Kiki Mladenovic, ed era entrata in tabellone come Lucky loser (“Pero’ in allenamento mi riusciva tutto, ero convinta che il lavoro avrebbe pagato presto gli interessi”), oggi e’ alla finestra della storia. “Due anni fa giocavo fra gli juniores, e’ stata una fase divertente che mi ha aiutato ad allenarmi per le pro, mi mancano quei momenti, ma sono in una nuova fase, e’ il mio primo anno tutto sul Wta Tour. Non sono nervosa, sono super eccitata, contenta per le opportunita’, e penso solo a mettermi sotto pressione nel prossimo allenamento. Cosi’ poi non soffro in partita. E se nel tennis non funzionera’, faro’ il chirurgo”. Generazione Amanda al test del tennis raffinato di Ash Barthy.

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