Saigon, ritratto di una città stratificata e in perenne movimento

8 gennaio 2019

A guardarla dall’alto, mentre si avvicina il tramonto, è bello immaginare che sia una sorta di città senza fine, “illimitata e periodica” come la Biblioteca di Babele di Jorges Luis Borges. Una metafora ottimista sul futuro delle città dei Paesi in via di sviluppo, che non nasconde le contraddizioni, ma prova a raccontarle in positivo. Siamo sulla Bitexo Tower a Saigon, nel cuore finanziario del Vietnam e sotto i nostri piedi si stendono le vite di 8 milioni e mezzo di persone, in uno dei Paesi più dinamici dell’Asia.

Storica capitale del Paese durante la dominazione francese, poi simbolo folle e lisergico del Vietnam del Sud durante i lunghi anni della guerra con i Vietcong, che la conquistarono il 30 aprile del 1975, ponendo fine allo sporco conflitto, come lo denunciavamo noi in Occidente, Saigon oggi si chiama ufficialmente Ho Chi Minh City e, superate le ferite del Novecento, ci presenta ora il fascino della città coloniale classica, con gli ampi boulevard da Parigi tropicale e alcuni gioielli architettonici ottocenteschi, insieme al dinamismo di una città-tigre che cresce in verticale coni suoi grattacieli e alla tradizione orientale delle pagode dove si bruciano incensi e si appendono coni votivi. Il tutto, e forse questa è la cosa che più colpisce e che spiega molto dell’Estremo Oriente contemporaneo, in un continuo flusso di persone e soprattutto di motorini che, insieme al fiume, sono il vero e proprio sistema sanguigno della città: inesausta, colorata, imprevedibile.

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“Le città – ha scritto l’economista americano Edward Gleaser – sono prossimità, densità, vicinanza. E il loro successo dipende dall’esigenza di connessione fisica”. A Saigon la teoria diventa pratica, attraverso una delle prove che i turisti – che nel 2017 sono stato oltre sei milioni – si trovano a dover affrontare da subito: attraversare la strada. Ma una volta scoperto il trucco, ossia buttarsi senza paura, neanche fossimo funamboli alla Philippe Petit, si entra nel meccanismo mentale della città e tutto, perfino l’inquietante Palazzo della Riunificazione, appare più fluido e armonico.

Poi c’è la notte, che è il momento in cui il respiro della città cambia, i grattacieli si colorano e il serpentone di motorini diventa luce. La notte è anche il contesto più ambiguo, nel quale al viaggiatore può venire il dubbio, ballando in uno skybar alla moda, di essere altrove, di essere in una sorta di magnetico non luogo ispirato in qualche modo all’immaginario collettivo su Chicago.

In realtà questo è l’errore più grosso e più comune che si può fare, perché se l’architettura è un riflesso delle condizioni primarie dell’esistenza di un edificio in un luogo, e questo luogo è Saigon, allora dobbiamo dimenticarci il Secolo americano (qui a maggior ragione, avrebbe detto il generale Westmoreland a nome di tutti i suoi marine) e respirare l’Asia, nelle sue tante forme che la globalizzazione finge di omologare, ma che in realtà restano uniche, problematiche, incontrollabili e naturalmente meravigliose. Come l’inestricabile mistero urbano che genera storie, amori, vite, umanità.

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