Separazione delle carriere, il dado è tratto: ora si guarda al referendum entro la primavera 2026

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La riforma costituzionale della giustizia è legge. Con 112 sì, 59 no e 9 astenuti, il Senato ha blindato ieri la separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti, coronando uno degli obiettivi cardine del governo Meloni. Tempo record dall’avvio dell’iter: 287 giorni, quattro passaggi parlamentari, zero modifiche consentite. Ma il capitolo più delicato è appena iniziato: entro la primavera del 2026 il provvedimento approderà al referendum confermativo, dove si giocherà una partita che va ben oltre la riforma stessa. Sarà plebiscito o bocciatura dell’esecutivo? La sfida è lanciata.

L’operazione della maggioranza – Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega – è stata chirurgica. Nessun margine di manovra per le opposizioni, costrette a subire un testo graniticamente impermeabile a emendamenti e correttivi. Le proteste si sono levate compatte dai banchi di Pd e M5s, con toni al calor bianco contro quella che hanno definito una “forzatura democratica”. Ma l’ordine di scuderia ha retto fino all’ultimo voto. E ora che il provvedimento non ha raggiunto i due terzi dei consensi richiesti nella seconda lettura – come prescrive l’articolo 138 della Costituzione – scatta automaticamente l’appuntamento con le urne.

Maggioranza e opposizione hanno già annunciato la mobilitazione per la raccolta firme: bastano le sottoscrizioni di un quinto dei parlamentari di una Camera, oppure 500mila elettori o cinque consigli regionali. La macchina referendaria è partita prima ancora che l’inchiostro si asciugasse sul provvedimento.

Meloni: “Traguardo storico”. Schlein: “Ti mandiamo a casa”

La premier ha impugnato il successo parlamentare come un trofeo politico. “Un passo importante verso un sistema più efficiente, equilibrato e vicino ai cittadini”, ha scritto sui social, rivendicando il “traguardo storico” e l’impegno mantenuto verso gli italiani. Poi la stoccata finale: “Ora la parola passerà ai cittadini”. Traduzione: sono pronta alla resa dei conti. Ma dall’altra parte della trincea, la segretaria dem Elly Schlein non si è fatta attendere. Davanti ai cronisti accorsi al Senato, ha sparato a zero: “Meloni non vuole politicizzare il referendum? Se perde non c’è bisogno che si dimetta perché la manderemo a casa noi”.

Un affondo diretto, senza giri di parole. Il Pd, ha annunciato, “farà la sua battaglia” denunciando una riforma cucita su misura per un governo che vuole “le mani libere ed essere al di sopra delle leggi e della Costituzione”. Nel mezzo, il ministro della Giustizia Carlo Nordio tenta l’impossibile: disinnescare la mina politica. “Mi auguro che la campagna referendaria venga tenuta in termini non polemici, aggressivi e soprattutto in senso politico: non deve diventare un referendum sul governo Meloni”, ha dichiarato, invocando un dibattito nel merito. Il fantasma di Renzi 2016 aleggia. Ma difficilmente questa consultazione resterà confinata ai tecnicismi giuridici.

I magistrati in campo: “Comitato per il no autonomo e indipendente”

L’Associazione nazionale magistrati ha alzato le barricate fin dal primo giorno. La riforma, secondo l’Anm, “altera l’assetto dei poteri disegnato dai costituenti e mette in pericolo la piena realizzazione del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge”. Parole durissime, che fotografano lo scontro frontale tra toghe e governo. Il presidente Cesare Parodi ha già dettato la strategia per la campagna referendaria. “Il nostro Comitato per il ‘no’ agirà in piena autonomia e indipendenza: non possono aderire né partiti, né sindacati”.

L’obiettivo è blindare la credibilità della magistratura, evitando contaminazioni partitiche. “Vogliamo essere liberi di manifestare il nostro pensiero e abbiamo un preciso dovere verso i cittadini di dimostrarci completamente autonomi e indipendenti”, ha chiosato Parodi. La posta in gioco è altissima. Nei prossimi mesi l’Italia si trasformerà in un’arena dove si scontreranno visioni opposte sulla giustizia, sull’equilibrio dei poteri, sul futuro della democrazia. E dove il governo Meloni potrebbe giocarsi molto più di una riforma.