“Shakespea Re di Napoli”, al Piccolo Eliseo un sogno anglobarocco

24 febbraio 2019

È l’opera teatrale più longeva che abbia attraversato le scene italiane negli ultimi 25 anni, fra quelle prodotte da una compagnia privata: “Shakespea Re di Napoli”, scritto e diretto da Ruggero Cappuccio arriva al Piccolo Eliseo di Roma dove sarà fino al 3 marzo con Claudio di Palma e Ciro Damiano, gli stessi attori che lo interpretano fin dalla sua prima rappresentazione.

La pièce, scritta in napoletano del ‘600, getta una luce affascinante sulle somiglianze poetiche fra Napoli barocca e Inghilterra elisabettiana, già evidenziate a suo tempo da Italo Calvino, che vedeva in Giambattista Basile un deforme Shakespeare napoletano. Somiglianze che si ritrovano anche e proprio nella lingua inglese e in quella napoletana, come spiega Cappuccio: “Queste due lingue sono due lingue che non terminano per vocale nessuna delle due, quasi mai. Questo determina un sinfonismo e una capacità ritmica del linguaggio che può essere spesa in modo forte a teatro”. “Nell’arco di pochi versi possono esprimere un concetto molto alto, poetico, aeriforme o malinconico, e un attimo dopo esprimere un concetto carnale, addirittura bestemmiativo, addirittura osceno”.

Leggi anche:
I genitori dell'ostaggio Hersh Goldberg-Polin: firmate cessate-il-fuoco

In un sofisticato gioco fra realtà e sogno, fra verità e menzogna, Ruggero immagina uno Shakespeare che giunge a Napoli alla fine del ‘500, ricevuto dal Viceré che lo invita a mascherarsi e partecipare allo sfarzoso e lascivo Carnevale napoletano: qui il Bardo si invaghisce di un giovane guitto, Desiderio (interpretato da Claudio Di Palma) e lo riporta a Londra dove al Globe Theatre diventerà una star interpretando tutti i ruoli femminili delle opere shakespeariane, Desdemona, Ofelia, Giulietta. Vent’anni dopo Desiderio torna a Napoli da naufrago e ritrova l’anziano amico Zoroastro (Ciro Damiano) che gli aveva fatto quasi da padre, che non crede a una parola del suo racconto: come prova, Desiderio riporta il manoscritto dei Sonnets di Shakespeare, che il Bardo aveva composto per lui.

Ma è proprio la lingua la grande protagonista dello spettacolo, capace di superare attraverso l’intelligenza emotiva degli spettatori le distanze culturali e geografiche: “La scommessa di questa lingua – afferma l’autore – è che finisce per parlare alla carne e ai sensi dello spettatore, e non al suo cervello. La storia di questo spettacolo è poi praticamente che in città italiane o estere in cui il linguaggio era lontano dalle antropologie locali che assistevano allo spettacolo, poi ci dicevano: abbiamo capito il 40% ma ci siamo commossi perché evidentemente il linguaggio era arrivato a un livello di comprensione che non è la comprensione razionale, ma una comprensione che riguarda qualcosa che è sommerso dentro di noi e che è pronto a risvegliarsi”.

Segui ilfogliettone.it su facebook
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Se avete correzioni, suggerimenti o commenti scrivete a redazione@ilfogliettone.it


Commenti