Aiuti umanitari col contagocce mentre le bombe cadono senza sosta: l’agonia di Gaza sotto gli occhi del mondo

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La situazione nella Striscia di Gaza continua a precipitare, avvolta da una spirale di violenza che sembra non conoscere tregua. Un nuovo attacco aereo israeliano ha provocato la morte di nove bambini appartenenti alla stessa famiglia a Khan Yunis. Tutti avevano meno di dodici anni. La madre, Alaa Najjar, una pediatra in servizio presso l’ospedale Nasser, ha ricevuto la notizia mentre curava altri feriti, costretta a vivere la perdita dei suoi figli nel pieno del suo lavoro di cura e assistenza. Il padre e un altro figlio di undici anni sono rimasti gravemente feriti.

Circa 54mila morti e oltre 120mila feriti

L’episodio, l’ennesimo in una lunga catena di lutti, si aggiunge a un conflitto che dal 7 ottobre 2023 ha già causato un numero impressionante di vittime. Secondo i dati del ministero della Sanità di Gaza, i morti sono ormai 53.939, con 122.797 feriti. Solo nelle ultime 24 ore si contano 38 vittime e 204 feriti, mentre dalla ripresa dei bombardamenti israeliani del 18 marzo si registrano oltre 3.700 decessi. I numeri crescono, giorno dopo giorno, in parallelo alla disperazione.

Particolarmente drammatica è la sorte dei più piccoli. L’UNRWA segnala che negli ultimi due mesi almeno 950 bambini hanno perso la vita in attacchi definiti “indiscriminati”. L’agenzia delle Nazioni Unite denuncia la sofferenza di una generazione intera: minori affamati, sfollati, traumatizzati, esposti alla violenza e privati della protezione elementare. “Questo deve finire”, è l’appello che l’organizzazione continua a ripetere ai governi del mondo.

Gli aiuti italiani

Ma le risposte concrete faticano ad arrivare. Gli aiuti umanitari sono sporadici e insufficienti. Solo oggi sono riusciti a entrare nella Striscia nove camion del Programma Alimentare Mondiale, finanziati dal governo italiano tramite il progetto “Food for Gaza”. Gli altri sei camion previsti dovrebbero arrivare a breve, attraverso il valico di Kerem Shalom. Tuttavia, i bisogni della popolazione – circa due milioni di persone – sono enormi, e i rifornimenti attuali rappresentano solo una frazione della domanda. Le strutture ospedaliere, soprattutto nel nord della Striscia, sono al collasso, alcune inaccessibili per il secondo giorno consecutivo. Intere aree non ricevono cure, elettricità, né acqua potabile.

Mentre la crisi umanitaria si aggrava, emergono nuovi dettagli sui piani militari israeliani. Secondo documenti visionati dal Times of Israel, le forze armate dello Stato ebraico intendono controllare il 75% del territorio di Gaza nei prossimi due mesi. Il progetto comporterebbe la concentrazione della popolazione palestinese in tre piccole aree: Gaza City, i campi profughi centrali e la zona costiera di al-Mawasi. La conseguenza sarebbe una compressione estrema: due milioni di persone ammassate in appena un quarto del territorio.

Netanyahu nel mirino della Spagna

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha confermato l’intenzione di avviare una vasta operazione di terra e ha ribadito che non ci sarà un ritiro dalle aree occupate, neanche in caso di accordi sugli ostaggi. Alcuni funzionari israeliani hanno accennato all’idea di trasferire parte della popolazione palestinese in altri Paesi, ipotesi che ha provocato immediate reazioni di condanna sul piano internazionale.

Tra i governi europei, la Spagna si distingue per la fermezza della sua posizione. Il ministro degli Esteri José Manuel Albares ha definito “insostenibile e disumano” ciò che sta accadendo a Gaza. Madrid ha cancellato un accordo per la fornitura di munizioni a Israele e ha annunciato il blocco di ogni esportazione di armamenti o tecnologia dual use. Il premier Pedro Sánchez ha affermato che “la Spagna non commercia con uno Stato genocida”, un’espressione che ha suscitato reazioni diplomatiche forti ma che segna un punto di svolta nella politica estera spagnola. In Parlamento è stata inoltre approvata una mozione che prevede sanzioni individuali, anche contro Netanyahu, mentre si rilancia con forza la soluzione dei due Stati come unica via d’uscita.

Gli ostaggi ancora in mano a Hamas

Anche gli Stati Uniti, storici alleati di Israele, mostrano segnali di preoccupazione. Washington avrebbe chiesto a Tel Aviv di posticipare l’offensiva militare più ampia, nel tentativo di salvaguardare i negoziati per il rilascio degli ostaggi ancora in mano a Hamas. Tuttavia, secondo le fonti israeliane, l’efficacia di questa strategia è messa in dubbio. L’ala militare di Hamas rimane sorprendentemente attiva, con una forza stimata di circa 40.000 combattenti, un numero sostanzialmente invariato rispetto a quello antecedente al 7 ottobre. Questo alimenta dubbi sull’efficacia delle attuali operazioni e sulla sostenibilità di una vittoria esclusivamente militare.

Nel frattempo, la frustrazione cresce anche all’interno di Israele. Familiari degli ostaggi manifestano contro il governo Netanyahu, accusandolo di mettere a rischio la vita dei prigionieri per perseguire obiettivi territoriali. Sulla scena internazionale, le voci critiche aumentano, e con esse la pressione su Israele perché riconsideri i suoi piani. Ma i segnali di apertura sono pochi. L’obiettivo dichiarato di una presenza permanente in gran parte della Striscia sembra confermare una strategia di lungo termine che prescinde da qualsiasi ipotesi di pace imminente.

La soluzione dei due Stati

Il quadro complessivo è quello di una crisi senza uscita, dove la diplomazia appare impotente e la guerra continua a mietere vittime, soprattutto civili. La domanda lanciata da José Manuel Albares rimane senza risposta: quale sarebbe, se non la pace, l’alternativa? Deportare milioni di persone? Lasciare che muoiano lentamente sotto le bombe e la fame? Immaginare uno “Stato” sotto occupazione permanente?

Per molti osservatori, la soluzione dei due Stati resta l’unica via credibile, ma ogni giorno che passa quella possibilità si allontana, mentre si moltiplicano le distruzioni, i lutti, i traumi. A Gaza, ciò che muore non è solo la vita quotidiana delle persone, ma anche l’idea che il diritto internazionale, la diplomazia e la giustizia possano ancora avere un ruolo. E intanto, i bambini come quelli della famiglia Najjar continuano a pagare il prezzo più alto.