Coronavirus, perché l’effetto Hong Kong è dietro l’angolo

Coronavirus, perché l’effetto Hong Kong è dietro l’angolo
4 aprile 2020

Ad Hong Kong ritorna il lockdown, le misure restrittive contro la diffusione del coronavirus erano state allentate e i contagi sono aumentati di nuovo, soprattutto quelli di ritorno, importati dagli stranieri ritornati nella regione. E “questo può succedere anche a noi”, ricorda il virologo dell`Università d Milano Fabrizio Pregliasco, avvertendo “il rischio di un’altalena tra stop and go delle misure restrittive”.

“Quello che è successo ad Hong Kong può succedere ovunque, l`altalena sarà possibile anche in Italia, dipende da quando e come ripartiremo, come saranno decise le riaperture. All`inizio dell`epidemia avevamo una diffusione che era legata ai luoghi di ritrovo, ai bar, ai luoghi di lavoro, all`ambiente degli ospedali. Con la chiusura abbiamo eliminato il grosso delle possibilità di contagio, rimane il contagio familiare come elemento di rischio, il cosiddetto effetto Diamond ( ricordando la nave in quarantena davanti al porto giapponese di Yokohama Ndr). Nel momento in cui riapriamo, e non sarà facile capire come ripartire, si riapriranno anche le possibilità di contagio. Sicuramente ci sono categorie come gli anziani che dovranno essere particolarmente protetti. Ma non si andrà solo per categorie a rischio, serviranno molte cautele, sorveglianza sanitaria e prudenza. Una serie di misure integrate”.

Il virologo dell`Università di Milano, Fabrizio Pregliasco

E ci sono alcune cose che secondo il virologo non si potranno proprio fare: “Bisogna considerare che alcune cose come le discoteche, gli eventi di massa, le partite di calcio non potranno comunque semplicemente ri-aprire. Anche riaprendo alcune attiva lavorative si riapriranno possibilità di contagio se non si mantengono certe misure di attenzione e precauzione”. Quindi “dobbiamo cambiare molte cose, perché possiamo avere una seconda ondata, il virus dopo aver fatto questa prima passata cercherà di andare a ripescare quelli che non aveva toccato in prima istanza. E questa seconda ondata potrebbe anche essere peggiore della prima, dipende dalla reale quota di percentuale di soggetti infettati. Perché o c`è un vaccino – e non c`è – oppure bisognerà aspettare che il 60 -70 per cento della popolazione si immunizzi, per bloccare la diffusione. E possiamo/dobbiamo mantenere la diffusione ad un livello continuato basso, far sì che questo livello di diffusione nella popolazione avvenga nell`arco di un anno o due”.

E` quindi possibile – secondo Pregliasco – che “ci siano più di uno stop and go dei lockdown, un avanti e indietro di riaperture e chiusure a seconda della diffusione del virus. Ogni volta che la velocità di trasmissione va oltre uno, il valore di riferimento, si dovrà correre ai ripari”. Quindi in attesa del vaccino “possiamo scordarci gli eventi di massa, dobbiamo evitarli”. Partite di calcio? Manifestazioni sportive? “E` possibile che siano necessarie ulteriori restrizioni. E bisognerà se non chiuderle ripensarle”. Le attività di lavoro sono necessarie ma anche qui ci sarà bisogno di cautele, in particolare “i responsabili del servizio di prevenzione previsto in ogni azienda dovranno valutare i rischi in questo senso e modificare l`organizzazione del lavoro, andrà fatto caso per caso. Lo smart working dovrà essere riproposto in modo più strutturato e organizzato. Si dovrà cambiare stile di lavoro e stile di vita. Rallentare lo stile di vita e ampliare gli spazi, trovare nel quotidiano, sia sul lavoro che nel tempo libero, una modalità per interagire in sicurezza. Occorrerà ripensare tutto”.

In attesa del vaccino, “si deve seguire un percorso che controlli sempre la diffusione del virus e riduca anche l`impatto dei casi più gravi”. Ché “il farmaco miracoloso che annienta il virus non c`è ma si può anche trovare una protocollo terapeutico che attenui la gravità del la malattia, limitando la sua evoluzione in casi gravi. E` possibile, e qualcosa si sta già studiando, arrivare ad un cocktail di farmaci e percorsi terapeutici, che evitino di arrivare alla forma grave di polmonite interstiziale che porta in terapia intensiva. Anche attraverso una presa in carico precoce dei pazienti da parte del sistema sanitario e monitoraggio sistematico dei casi. Questa volta è stata una guerra. Non deve più essere così”.

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