Gaza, l’orrore nella scuola rifugio: 36 morti tra le fiamme e le macerie. Tregua ancora lontana

Questa volta l’orrore si è consumato a Gaza City, nell’ex scuola Fahmi Aljarjaoui, trasformata in rifugio di fortuna per centinaia di sfollati. Un bombardamento israeliano ha centrato l’edificio, scatenando un vasto incendio che si è propagato rapidamente anche alle tende montate nei pressi. Il bilancio, secondo le autorità di Hamas, è di almeno 36 vittime, molte delle quali carbonizzate. Civili sopravvissuti parlano di 31 morti. Tra le lamiere bruciate e i corridoi anneriti dal fumo, i soccorritori hanno lavorato per ore, sotto le grida disperate: “Ci sono persone che stanno bruciando!”, hanno urlato, cercando di aprire l’acqua per spegnere le fiamme.

Le immagini diffuse sui social mostrano scene di devastazione e panico: un rifugio che in pochi istanti si è trasformato in trappola mortale. Le ricostruzioni sono ancora frammentarie. Alcune fonti parlano di una detonazione interna causata da esplosivo nascosto, colpito da una bomba. Altre sostengono che le vittime fossero tutte all’interno della struttura. La verità, come spesso accade in guerra, si dissolve nella nebbia del conflitto, ma il risultato è tragicamente chiaro: una strage di civili.

La promessa mancata della tregua

Sul piano politico, la giornata avrebbe potuto segnare una svolta. Nelle prime ore di lunedì, tra le capitali arabe e Washington, è rimbalzata la voce di una possibile tregua negoziata. Un alto esponente di Hamas aveva fatto sapere che il movimento era pronto ad accettare il piano messo sul tavolo dall’inviato statunitense Steve Witkoff. Ma si è trattato solo di un’illusione. Poche ore dopo, lo stesso Witkoff ha smentito: “Quello che ho sentito finora da Hamas è deludente e del tutto inaccettabile. Israele ha accettato la mia proposta di cessate il fuoco. C’è un accordo, ma Hamas dovrebbe firmarlo”.

Secondo alcune fonti diplomatiche, Hamas sta cercando di ribaltare la narrazione, attribuendo a Israele la responsabilità del blocco. Ma nel frattempo, l’organizzazione islamista ha avanzato una proposta autonoma, prevedendo il rilascio di dieci ostaggi in due fasi, in un arco di 70 giorni. Una bozza che non combacia con il piano statunitense, già approvato da Tel Aviv.

Il ritorno di un mediatore

A inserirsi nel labirinto dei negoziati è il nome di Bishara Bahabah, mediatore palestinese-americano noto per il suo ruolo negli Accordi di Oslo e, più recentemente, per aver facilitato il rilascio dell’americano Idan Alexander. Secondo la tv libanese Al-Mayadeen, Bahabah ha consegnato un nuovo documento, ricevuto da Israele durante la notte, con il presunto assenso di Witkoff. Una delle richieste chiave da parte di Hamas sarebbe una garanzia americana sulla fine del conflitto. Ma da Washington, su questo punto, non sono arrivate conferme ufficiali.

La doppia faccia di Gerusalemme

Nel frattempo, Israele ha vissuto una giornata che avrebbe dovuto essere di festa. Il “Giorno di Gerusalemme”, che celebra la riunificazione della città nel 1967, è stato invece segnato dalla violenza. Gruppi di ultranazionalisti israeliani, molti dei quali legati al ministro Itamar Ben Gvir, hanno marciato nella Città Vecchia, aggredendo verbalmente e fisicamente i residenti arabi. Hanno preso a calci le saracinesche dei negozi, sputato sui passanti e scandito cori razzisti: “Morte agli arabi”, “Bruciate i loro villaggi”.

L’opposizione israeliana, con Yair Lapid e Yair Golan, ha denunciato quanto accaduto: “È stato un giorno di odio e razzismo, non una festa nazionale”, hanno detto, criticando l’inerzia del governo.

La diplomazia in trincea

Sul fronte diplomatico, la tensione è alle stelle. Il ministro Ron Dermer, fedelissimo di Netanyahu, ha avvertito i capi della diplomazia di Francia e Regno Unito: qualsiasi riconoscimento unilaterale dello Stato di Palestina porterà a un’annessione immediata e unilaterale dell’area C della Cisgiordania da parte di Israele. Una dichiarazione che suona come un ultimatum e che rischia di mettere definitivamente in crisi i già fragili equilibri regionali.

Le famiglie degli ostaggi: “Aspettiamo, ma il tempo è finito”

In questo scenario incandescente, solo una speranza rimane accesa per le famiglie degli ostaggi israeliani: quella coltivata nelle telefonate tra i funzionari americani e i parenti. Witkoff e Adam Buehler, capo del dipartimento ostaggi Usa, hanno assicurato: “Speriamo in sviluppi entro due giorni”.

Ma anche questa promessa è apparsa evanescente, tanto quanto l’ottimismo del premier Netanyahu, che in un video ha detto: “Spero vivamente di poter annunciare qualcosa su questa questione. Se non oggi, domani”. Un’uscita che il suo staff ha poi ridimensionato: “È solo un modo di dire”.