Morto a Milano Bernardo Provenzano, il capo di Cosa nostra aveva 83 anni. Vietati i funerali in chiesa

Morto a Milano Bernardo Provenzano, il capo di Cosa nostra aveva 83 anni. Vietati i funerali in chiesa
13 luglio 2016

Bernardo Provenzano è deceduto nell’ospedale San Paolo di Milano, dove era stato ricoverato il 9 aprile 2014, proveniente dal centro clinico degli istituti penitenziari di Parma. Il capo indiscusso di Cosa nostra aveva 83 anni ed ormai era fisicamente debilitato a causa di un cancro alla vescica. Diverse perizie avevano certificato il suo stato fisico e mentale precario, il progressivo decadimento cognitivo, l’impossibilita’ di partecipare ai numerosi processi in cui era imputato. I medici avevano certificato come il suo stato fosse incompatibile con il regime carcerario, ma era rimasto recluso al 41 bis. Nell’aprile scorso l’ultima proroga. Provenzano, da dieci anni in carcere, era stato arrestato l’11 aprile del 2006, dopo una latitanza durata 43 anni, in una masseria di Montagna dei Cavalli, nella sua Corleone. La moglie e i figli di Provenzano, giunti a Milano il 10 luglio scorso, il giorno stesso sono stati autorizzati ad incontrare il loro congiunto. Intanto, il questore di Palermo Guido Longo ha disposto che vengano vietati i funerali per il boss Bernardo Provenzano. La decisione è stata presa per motivi di ordine pubblico, come già avvenuto in passato per altri casi analoghi. I familiari del capo mafia – ha spiegato all’ANSA – il questore, potranno accompagnare in forma privata la salma del congiunto nel cimitero di Corleone, ma senza che si svolga la cerimonia funebre in chiesa. E’ stata disposta anche l’autopsia sul cadavere di Provenzano dal pm di turno di Milano Alessandro Gobbis per fugare, come è stato riferito, qualsiasi dubbio sulle cure ricevute all’ospedale San Paolo e sulle cause della morte legate all’aggravarsi della malattia che lo aveva colpito ormai da tempo. Gli esami autoptici, stando a quanto è stato precisato in Procura, saranno effettuati domani o al massimo dopodomani all’Istituto di medicina legale di Milano dove la salma è stata trasferita. Per effettuare l’autopsia il pm ha dovuto aprire formalmente anche un fascicolo a ‘modello 45’, ossia senza ipotesi di reato né indagati. Con la fissazione dell’autopsia, tra l’altro, il legale di Provenzano, l’avvocato Rosalba Di Gregorio, potrà nominare un consulente per seguire gli accertamenti.

La sua latitanza durata 43 anni era finita l’11 aprile 2006. Bernardo Provenzano, detto “Binnu u tratturi”, per la violenza con cui falciava i suoi nemici, corleonese, classe 1933, il capo dei capi di Cosa nostra dopo l’arresto del feroce Toto’ Riina, era stato preso in un misero casolare della sua Corleone. Era ricercato dal 9 maggio 1963, dopo l’ennesimo agguato della faida fra la cosca di Luciano Liggio, di cui faceva parte, e quella del dottore Michele Navarra. Una ‘fuga’ finita nel suo paese, dentro una casa di campagna. In cella si era portato dietro 43 anni di relazioni con palazzi del potere e di misteri, anche sulla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia. Fra il 1943 e il 1961 Corleone fu insanguinata da cinquantadue omicidi e ventidue tentati omicidi, oltre un numero imprecisabile di lupare bianche. Il 9 maggio del ’63 Quella mattina di maggio, quattro sicari fra i piu’ temuti – Giuseppe Ruffino, Calogero Bagarella, Giovanni e Bernardo Provenzano – si erano dati appuntamento in strada al sorgere dell’alba. Per ordine di Luciano Liggio avrebbero dovuto uccidere Francesco Paolo Streva, esponente del clan Navarra: “Elemento scaltro, coraggioso e vendicativo – scriveva di lui la polizia, che lo aveva proposto per il soggiorno obbligato – si sposta con due pistole alla cintola”. Quella mattina, Streva riusci’ a rispondere al fuoco e scampo’ alla morte. Fu poi ucciso il 10 settembre. Otto giorni dopo, i carabinieri denunciarono Provenzano: cosi’ il 18 settembre 1963 iniziava ufficialmente la latitanza della primula rossa di Corleone.

LA STORIA Legato sentimentalmente a Saveria Benedetta Palazzolo, con la quale non si e’ mai sposato ma ha convissuto, con lei ha condiviso la latitanza, insieme ai figli Angelo e Francesco Paolo Provenzano, quest’ultimo laureato in lingue e culture moderne, vincitore di una borsa di studio del ministero dell’Istruzione, ottenenendo un posto di insegnante in Germania. Entrambi non hanno seguito le orme del padre. Il 10 dicembre 1969 ‘Binu’ partecipo’ alla strage di viale Lazio, dove l’obiettivo era eliminare il boss Michele Cavataio, “Il cobra”, colpevole di aver messo tutte le famiglie contro e di aver fatto scoppiare la prima guerra di mafia. Provenzano uccise Cavataio spaccandogli il cranio con il calcio della mitragliatrice e poi lo fini’ con un colpo di pistola: dove passava “u’ tratturi” – si diceva non cresceva piu’ l’erba. Dopo la cattura di Liggio nel 1974, prese il potere del clan dei corleonesi Salvatore Riina, affiancato da Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella, il quale, scatenando la seconda guerra di mafia, li porto’ in pochi anni alla guida di tutta Cosa nostra siciliana. Nel 1984 i Corleonesi dopo aver eliminato tutti i rivali diventarono i leader della Cupola mafiosa e Toto’ Riina divenne il capo dei capi di Cosa nostra. I Corleonesi furono l’unica cosca ad avere due rappresentanti nella commissione direttiva: Toto’ Riina e Bernardo Provenzano. Preso il potere nella commissione, il clan corleonese sviluppo’ una strategia aggressiva nei confronti della magistratura e dello Stato. E’ la stagione delle stragi: nel 1992 a Capaci fu ucciso il magistrato Giovanni Falcone e in via d’Amelio Paolo Borsellino; successivamente gli attentati del 1993 a Roma, a Firenze e a Milano.

Dopo la cattura di Toto’ Riina nel 1993, Provenzano diviene il capo dei Corleonesi e successivamente il capo assoluto della mafia siciliana, sostituendo Riina e cambiando radicalmente la strategia, portando l’organizzazione ad una rapida sommersione, facendo riconquistare ai mafiosi l’invisibilita’. Nel 1995 e nel 1996 vennero arrestati rispettivamente Leoluca Bagarella rivale alla successione a capo dei capi di Cosa Nostra e Giovanni Brusca. Dopo la cattura di Leoluca Bagarella, arrestato dalla Direzione investigativa antimafia il 24 giugno 1995, Provenzano ha campo libero e comanda a modo suo. Nel 2002 si ebbe notizia che si fosse fatto operare sotto falso nome (Gaspare Troia) a Marsiglia per un cancro alla prostata, secondo alcune fonti dall’urologo Attilio Manca. In quell’occasione le forze dell’ordine riuscirono ad entrare in possesso di una foto del boss, applicata sulla finta carta d’identita’. Il 24 luglio 2012 la procura di Palermo, sotto Antonio Ingroia e in riferimento all’indagine sulla Trattativa Stato-Mafia, ha chiesto il rinvio a giudizio di Provenzano e altri 11 indagati accusati di “concorso esterno in associazione mafiosa” e “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, insieme a politici, ufficiali e boss, tra cui Riina. Secondo la ricostruzione fatta il primo febbraio 2010 nel processo per favoreggiamento contro Mario Mori, da Massimo Ciancimino, il boss di Cosa nostra avrebbe goduto, secono quanto raccontatogli dal padre di “una sorta di immunita’ territoriale” fin dal 1992, che gli consentiva di spostarsi liberamente durante la latitanza. Poi la cattura, il progressivo decadimento fisico e cognitivo e la morte a 83 anni con la quale Bernardo Provenzano porta via con se’ tanti, troppi misteri.

IL LEGALE  “Per me Provenzano e’ morto nel momento in cui e’ caduto ed e’ stato operato al cervello. Era un vegetale. Piu’ volte ho chiesto la revoca del carcere duro ma la mia richiesta non e’ mai stata accolta”. E’ quanto afferma Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano sin dai tempi della sua cattura. “Il carcere duro veniva applicato anche ai suoi parenti. Potevano incontrare il loro familiare – aggiunge – solo una volta al mese e dietro ad un vetro. Le sue condizioni di salute si erano aggravate da circa 4 anni. Non aveva piu’ reazioni di nessun genere”.

 

 

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