Con Don Giovanni ritorna l’Opera al Teatro Massimo di Palermo

Sarah Jane Brandon
23 settembre 2020

Don Giovanni muore. Avvolto in una nube tinta di rosso attraversata da fasci di luci troboscopiche blu e rosse mentre sulle voci dell’oltretomba, diavoli e dannati, si sgretolano le immagini di palazzi veneziani fatiscenti. Muore così un mito? Forse. Ma forse no. Assume altre connotazioni che lo hanno da sempre contraddistinto. Come anche l’idea che lo spagnolo barocco Don Juan altri non sia che l’antesignano dell’illuminato veneziano Casanova. Solo così, forse, si spiegherebbero i suggestivi, ma anche opprimenti, scorci di palazzi della laguna simbolo di fasti e degrado della Serenissima che Marco Gandini ha scelto – nella sua versione semiscenica proposta per il Teatro Massimo – per scandire gli ultimi istanti, attimi, ore della vita del mito della seduzione. Ma Don Giovanni, seduce ancora? Sicuramente seducono la musica e il libretto che Mozart e Da Ponte hanno creato. Seducono nella loro perfezione stilistica, nell’ammiccare di note e parole, nella satira di un costume che denunciano, nell’immortalità che insieme all’eroe che raccontano hanno raggiunto. Torniamo quindi alla domanda iniziale. Muore Don Giovanni? Sul serio? Ovviamente no. Come non muore il “Massimo”, che dalle ceneri, si può dire, di Don Giovanni – trafitto da rossi laser – con un sold out di 200 biglietti staccati – questo permettono le misure anti Covid – riapre le porte del Teatro e la Sala Grande all’Opera, in un settembre dove, tra concerti in collaborazione con gli Amici della musica, eventi sinfonici, rinasce a poco a poco la magia dello spettacolo e il pubblico torna a godere di essa. Ancora una volta Don Giovanni si presta ad un evento simbolo dove timore della morte, coraggio e rinascita convivono nell’esaltazione della libertà/libero arbitrio dell’uomo stesso.

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Riprendendo la versione eseguita a Vienna un anno dopo il successo della prima rappresentazione a Praga, la nuova messa in scena di questo Don Giovanni palermitano si conclude quindi con la morte del dissoluto e impenitente protagonista, senza il finale che indica la cosiddetta morale con il sestetto degli altri personaggi – Leporello, Donna Anna, Donna Elvira, Don Ottavio, Zerlina e Masetto – sopravvissuti e spaesati (“Questo è il fin di chi fa mal”). L’opera finisce dunque con lo sprofondamento all’inferno di Don Giovanni, ostinato e cinico sostenitore del predominio delle passioni sulla morale, trascinato dalla mano gelida del Commendatore in un abisso di fiamme. Come si diceva Gandini gioca con le immagini e le luci, divenute – in questa era Covid – vero e proprio supporto scenico degli eventi da lui firmati, come per esempio nel concerto – di grande impatto visivo, interpretativo e musicale – che ha visto insieme la Messa per l’incoronazione di Mozart e Il sopravvissuto di Varsavia di Schoenberg. Alla sua visione, un po’ lugubre in alcuni punti, si contrapponeva la vivacità e il ritmo che il direttore musicale dell’Ente palermitano, Omer Meir Wellber, ha imposto all’orchestra del Massimo, divertendo e divertendosi – lasciando per l’occasione il podio per il clavicembalo nei recitativi – lanciandosi anche in alcune improvvisazioni fuori dal “così è scritto” della partitura, reinterpretando cosi, in un certo modo, certe libertà che lo stesso Mozart al clavicembalo si prendeva proprio negli stessi momenti.

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Proprio per questo, oltre le pagine più celebri dell’opera, la parte dei recitativi può essere la più interessante, ma anche la più difficile per gli interpreti che devono così sfoderare tutta la loro abilità attoriale seguendo, e inseguendo, le volute e gli umori suggeriti dal clavicembalo. Prova questa superata dal protagonista, Don Giovanni in persona, al secolo Alessio Arduini, la cui voce – più baritonale e leggera che da basso – ha saputo seguire e interpretare arditamente le pagine più virtuosistiche – come Fin c’han dal vino – mancando però di un certo spessore e drammaticità là dove era più necessario. La sua è comunque una prova brillante, immortalata anche dalle immagini create dall’impianto visivo affidato alle proiezioni di Virginio Levrio  che sulle ambientazioni veneziane, portici, campielli e fa specchiare il volto del protagonista, fino alla scena conclusiva con il ricorso al Super FX Laser di Filippo Scortichini che immergono il protagonista nella tridimensionalità delle fiamme dell’inferno. A fianco di Don Giovanni il Leporello saldo e robusto di Riccardo Fassi che subito conquista con il suo “Catalogo” eseguito magistralmente spingendo lì dove i doppi sensi di Da Ponte lasciano spazio all’immaginazione dell’ascoltatore.

Il trio femminino, le vittime di Don Giovanni, era impreziosito grazie alle voci di Sarah Jane Brandon (Donna Anna) – già peraltro ascoltata nella Messa per l’incoronazione, ma apparsa molto più a suo agio nell’eroina mozartiana – Aga Mikolaj (Donna Elvira) – in alcuni momenti apparentemente affaticata nel sostenere uno dei ruoli più impervi della scrittura operistica, sin dall’esordio Ah, chi mi dice mai – e la palermitana Laura Giordano una Zerlina quasi matura e assennata, anche vocalmente, che poco si lascia conquistare e prendere dalle promesse di Don Giovanni. Gli altri due ruoli maschili – ruoli che sembrano quasi essere avulsi dal contesto di intrighi e seduzioni, fermi come sono nelle loro regole e morali – Don Ottavio e Masetto hanno trovato il giusto equilibrio, vocale e interpretativo, nel tenore Benjamin Hulett e nel basso Evan Hughes. Entrambi poco resistono alle grazie delle loro amate – Anna e Zerlina – e si lasciano guidare da esse. Se Masetto almeno avrà il nome di sposo Don Ottavio dovrà ancora aspettare per impalmare la sua Donna Anna. E qui sorge una domanda cui molti registi hanno cercato di dare una risposta: ad apertura d’opera Donna Anna insegue e impreca contro Don Giovanni perché lui la sta abbandonando, oppure per denunciarlo? Gandini lascia la risposta aperta. Al pubblico trovare una risposta, ancora due le recite: il 24 e il 26. Non perdetele!

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