Landini, Schlein e il Pd: un flop referendario che svela una sinistra allo sbando

Maurizio Landini e Elly Schlein

Maurizio Landini e Elly Schlein

Un quorum irraggiungibile, un’affluenza intorno al 30%, una mobilitazione fallimentare, un consenso interno in frantumi e un Paese che si allontana sempre di più da un’area politica ormai incapace di parlare alla maggioranza degli italiani.

Il risultato dei referendum abrogativi non è stato solo una sconfitta tecnica, ma una vera e propria catastrofe politica per la sinistra radicale e riformista italiana. Una disfatta annunciata, figlia di scelte ideologiche, divisioni interne, incapacità strategica e un profondo distacco dalla realtà sociale ed economica del Paese.

Dietro a questo clamoroso insuccesso, emergono con chiarezza i nomi di due figure simbolo: Maurizio Landini, leader della Cgil, e Elly Schlein, segretaria del Partito Democratico. Due personaggi che, pur provenendo da contesti diversi, hanno contribuito in maniera determinante a spingere l’intero schieramento verso un baratro politico e comunicativo dal quale sarà difficile uscire.

Landini e la deriva ideologica della Cgil

Maurizio Landini ha giocato un ruolo centrale nell’intera vicenda referendaria. La sua volontà di utilizzare lo strumento referendario come arma di lotta contro le riforme del lavoro degli ultimi anni — in primis il Jobs Act — è apparsa fin da subito poco realistica e fortemente ideologizzata.

I quesiti proposti, sebbene legittimi sotto il profilo sindacale, sono stati presentati al Paese senza una visione alternativa chiara, né una proposta concreta per affrontare le nuove sfide del mercato del lavoro globale.

La Cgil, invece di rappresentare una voce equilibrata e mediatrice tra lavoratori e sistema produttivo, si è trasformata in un soggetto politico che sembra guardare indietro nel tempo, riproponendo modelli e rivendicazioni superati. L’idea di tornare a una rigidità contrattuale estrema, in un momento in cui molte aziende faticano a stare a galla, appare quanto mai mal calibrata.

Eppure, Landini non sembra intenzionato a fare alcun passo indietro. Anzi, con orgoglio quasi ideologico, dichiara di non avere alcuna intenzione di lasciare la guida del sindacato, ribadendo che le decisioni sono state prese collettivamente e che non ci saranno ripensamenti sulla strategia adottata. Un atteggiamento che sa tanto di chiusura e di arroganza, destinato a isolare ulteriormente la Cgil da quegli stessi lavoratori che dice di rappresentare.

Schlein: tra rivoluzione e rovina politica

Se Landini ha fornito la spinta ideologica, Elly Schlein ha cercato di trasformare il referendum in una sorta di battaglia identitaria per il Partito Democratico. Invece di operare una svolta pragmatica e rinnovatrice, la segretaria dem ha scelto di cavalcare l’onda della protesta, puntando tutto su una campagna polarizzata e divisiva, incentrata sul contrasto frontale al governo Meloni.

Una mossa rischiosa, che si è rivelata un boomerang. Non solo l’affluenza è stata bassissima, ma anche molti militanti e cittadini moderati hanno espresso il proprio dissenso con l’astensionismo. La marcia per Gaza, in piena campagna elettorale, è stata interpretata da molti come un tentativo maldestro di alimentare l’attenzione mediatica, ma ha finito per indebolire ulteriormente il partito agli occhi di un elettorato già confuso e frammentato.

La Schlein, che aveva promesso una rottura netta con il “vecchio Pd”, si ritrova oggi a guidare un partito diviso, dove i cosiddetti “riformisti” — come Elisabetta Gualmini — non nascondono il proprio malcontento. La sua leadership, lungi dall’essere rafforzata, appare fragile e sempre più in crisi.

Il Pd: frammentazione, divisione e perdita di identità

Quello che emerge con drammatica evidenza da questa debacle è che il Partito Democratico non riesce a costruire una proposta unitaria e credibile. Da un lato c’è la componente radicale, attratta dalle battaglie di Landini e Bonelli; dall’altro ci sono i residui dell’area riformista, che fatica a farsi ascoltare e a incidere sulle scelte strategiche.

Come ha denunciato con una certa dose di perfidia Elisabetta Gualmini, il referendum è stato “un boomerang”, un tentativo di “sfratto” nei confronti di Meloni che si è trasformato in un autogol epocale. I temi posti al voto erano poco legati alle vere problematiche del mercato del lavoro odierno, e hanno finito per alienare non solo i moderati, ma anche parte della base storica del partito.

Il Pd appare sempre più come un contenitore vuoto, privo di una visione chiara e con una classe dirigente che sembra più interessata alle battaglie interne che al bene comune. Se non riesce nemmeno a mobilitare i propri elettori, allora il problema non è occasionale: è sistemico.

L’effetto boomerang della campagna dell’odio

Un altro elemento cruciale che ha accompagnato la campagna referendaria è stato l’utilizzo dello strumento del voto come mezzo di odio e divisione. Il presidente del Senato Ignazio La Russa ha accusato apertamente Elly Schlein, Benedetto Della Vedova, Eleonora Forenza e altri esponenti della sinistra di aver condotto una campagna denigratoria tale da spingere molti elettori all’astensionismo.

“La loro volgare campagna di disistima nei miei confronti ha avuto un effetto: ho votato per un solo quesito. Senza le loro parole, forse avrei votato NO a tutti e cinque.” Queste parole, pur pronunciate da un esponente della destra, mettono in luce un dato oggettivo: la sinistra ha trasformato il dibattito pubblico in una lotta continua, dove l’obiettivo non è proporre soluzioni, ma distruggere l’avversario.

Ma il risultato è chiaro: il veleno, stavolta, ha colpito chi l’ha sparso. L’eccesso di toni, la deriva moralistica, la guerra continua ai simboli della destra hanno finito per allontanare non solo gli elettori moderati, ma anche una parte consistente di quella sinistra silenziosa che non si riconosce più nelle derive ideologiche e settarie del movimento.

Salvini e Calenda: il realismo come antidoto alla crisi

Nel mentre, Matteo Salvini non si è fatto pregare per celebrare il risultato come una vittoria del buonsenso e delle politiche concrete. “Grande rispetto per chi è andato a votare, enorme sconfitta per una sinistra che non ha più idee e credibilità e che non riesce a mobilitare neanche i propri elettori,” ha detto il vicepremier. E nonostante le sue parole abbiano un certo sapore trionfalista, non possiamo negare che il governo abbia registrato dati positivi sul fronte occupazionale, con un tasso di disoccupazione ai minimi storici e un aumento dei posti di lavoro stabili.

Carlo Calenda, leader di Azione, ha invece lanciato un monito importante: il referendum non può essere uno strumento per affrontare questioni complesse come quelle del lavoro. Usarlo come arma ideologica è irresponsabile e dannoso. “Trasformare questo referendum in una consultazione contro la Meloni è stato un clamoroso autogol, perché ha sommato i voti della destra con quelli dell’astensione; se la sinistra continua a farsi trascinare dalle battaglie ideologiche di Landini, Conte, Fratoianni e Bonelli non andrà da nessuna parte”.

Calenda ha anche toccato un tasto dolente: è arrivato il momento che i riformisti di qualsiasi schieramento prendano atto che occorre costruire un’area liberale e pragmatista, lontano sia dal campo largo della sinistra radicale che dalla destra sovranista.

Verso quale futuro?

Ora si apre un periodo di crisi interna per il centrosinistra. La Schlein dovrà affrontare le critiche dei riformisti, Landini continuerà imperterrito sulla sua strada, e il Pd si troverà a dover fare i conti con un consenso sempre più fragile. Il rischio è che, anziché prendere atto della realtà, si continui a puntare il dito verso il nemico esterno, anziché guardare dentro casa propria.

La sinistra italiana ha bisogno di una seria opera di ricostruzione. Ma per farlo, deve prima ammettere di aver fallito. Deve smettere di fare propaganda e iniziare a proporre. Deve imparare ad ascoltare i lavoratori, i giovani, le famiglie e non limitarsi a parlare a sé stessa.

E fino a quando personaggi come Landini e Schlein continueranno a negare la realtà, la strada sarà ancora lunga e piena di ostacoli. Il flop referendario è solo l’inizio di una crisi più ampia, che potrebbe portare alla fine di un’epoca — o, forse, alla nascita di qualcosa di nuovo, se qualcuno avrà il coraggio di cambiare davvero.