Tribunale europeo vs Von der Leyen: violate norme sulla trasparenza per Sms con Pfizer

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Ursula von der Leyen

Nel panorama delle istituzioni europee, la trasparenza è spesso evocata come uno dei pilastri fondamentali del funzionamento democratico dell’Unione. Eppure, il recente caso relativo alla richiesta di accesso ai messaggi di testo tra la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il CEO di Pfizer Albert Bourla ha rivelato una realtà ben diversa: quella di un’istituzione che sembra faticare a rispondere pienamente al principio di apertura tanto sbandierato.

A iniziare questa battaglia per la trasparenza è stata Matina Stevi, giornalista del New York Times , che, ai sensi del regolamento (CE) n. 1049/2001 sull’accesso ai documenti, ha chiesto l’accesso ai messaggi SMS scambiati tra i due tra gennaio 2021 e maggio 2022 — un periodo cruciale durante il quale si sono definiti gli accordi per l’approvvigionamento di vaccini anti-COVID da parte dell’UE. La risposta della Commissione è stata netta: negazione totale, motivata con l’inesistenza stessa dei documenti.

Questa motivazione, però, non solo appare fragile, ma è stata smontata punto per punto dal Tribunale dell’Unione europea, che nel suo giudizio ha accolto il ricorso presentato dalla giornalista e dal quotidiano statunitense. Il Tribunale ha ricordato che il regolamento sull’accesso ai documenti mira a garantire la massima trasparenza possibile, ponendo un onere preciso sulle istituzioni: quando si dichiara che un documento non esiste, tale affermazione può godere di una presunzione di veridicità, ma essa può essere superata da elementi concreti e concordanti forniti dal richiedente.

E proprio in questo senso si è mossa la corte: il materiale presentato dal New York Times — compresi articoli, testimonianze e ricostruzioni pubbliche — è stato considerato sufficientemente credibile per mettere in dubbio la versione ufficiale della Commissione. A fronte di ciò, l’istituzione guidata da Von der Leyen non ha saputo o voluto fornire una difesa adeguata. Non solo non ha spiegato in modo convincente le modalità di ricerca effettuate per rintracciare i messaggi, ma non ha nemmeno chiarito se tali comunicazioni fossero state eliminate volontariamente, accidentalmente o semplicemente perse a causa di un cambio di dispositivo.

Ancora più preoccupante è il fatto che la Commissione abbia anche omesso di argomentare in maniera plausibile perché tali messaggi — relativi a decisioni strategiche su miliardi di dosi di vaccino — non avrebbero meritato di essere conservati. Un silenzio che fa emergere un atteggiamento superficiale nei confronti della memoria storica e della responsabilità democratica legata alle decisioni pubbliche.

Questo episodio solleva interrogativi profondi sulla capacità della Commissione di fare fronte alle richieste di accountability da parte dei cittadini e della stampa. Se è vero che la tecnologia ha reso più veloci le comunicazioni, è altrettanto vero che essa deve essere accompagnata da una cultura della registrazione e della trasparenza, soprattutto quando si tratta di dialoghi tra figure chiave nella definizione di politiche pubbliche così impattanti.

La sentenza del Tribunale Ue rappresenta quindi non solo una bocciatura formale, ma un monito forte: le istituzioni europee non possono continuare a operare nell’ombra, affidandosi a dichiarazioni generiche o poco motivate. Il diritto all’informazione e alla trasparenza non è un optional burocratico, ma un pilastro della democrazia. La Commissione farebbe bene a ricordarselo.