L’Otello di Verdi nell’apocalittica produzione di Brockhaus

28 febbraio 2014

Al Massimo brilla la stella di Jago che surclassa il Moro di Venezia

E’ un Otello sovrano di un regno in distruzione, dalle apocalittiche atmosfere post belliche, quello che Henning Brockhaus presenta a Palermo come seconda produzione della Stagione 2014. Le tetre e fumose scene di Nicola Rubertelli – che tuttavia richiamano, seppur con qualche variante ed elemento in più, quelle di Alessandro Camera utilizzate nella scorsa Stagione per Nabucco, Aida e Rigoletto – rimandano ad un lugubre luogo i cui muri, spalti sono intessuti da una sottile ragnatela evidenziata dalle fredde luci di Alessandro Carletti. La stessa ragnatela in cui Jago avvolgerà la mente di Otello e i protagonisti tutti. Jago, artefice. Jago, regista. Jago, Deus ex machina. Visione non originale questa di Brockhaus che colloca il personaggio già ad apertura di scena, con sigaretta in bocca, strappare la riproduzione, a mo’ di arazzo, del Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch. Scena che richiama alla memoria un altro personaggio, questa volta mozartiano, Don Giovanni, nell’omonima produzione di Robert Carsen alla Scala del 2011.

Visione non originale questa di Brockhaus che colloca il personaggio già ad apertura di scena, con sigaretta in bocca

E così come Don Giovanni giocava con i suoi personaggi relegandoli in ruoli da comparsa, qui Jago ne distrugge le esistenze tessendo loro attorno una tela dalla quale lui stesso fuggirà (ribaltando il finale di Otello dove notoriamente Jago viene preso e arrestato, se non addirittura ucciso talvolta). Il mondo nero, lugubre in distruzione sembra essere “rallegrato” – se può mai esserlo – da un colorato gruppo di mimi/clown che apparentemente dovrebbero risolvere i punti morti dell’azione. Costante questa in Brockhaus – la vena clownesca aveva investito anche il Rigoletto dello scorso anno – ma anche delle ultime produzioni del Massimo. Sembrerebbe infatti che i registi, Emma Dante ad esempio per l’inaugurale Die Feuersnot, abbiano trovato in questi mimi la soluzione ai movimenti delle masse. E’ infatti a loro che tocca – chiamiamolo così – il “lavoro sporco” del muoversi in scena, mentre il Coro può beatamente starsene tranquillo in assetto da concerto ai lati e pensare esclusivamente al canto, e dando l’ottima prestazione che ne ha dato.

Il Coro può beatamente starsene tranquillo in assetto da concerto ai lati e pensare esclusivamente al canto, e dando l’ottima prestazione che ne ha dato.

Tale dinamicità però, se appare idonea in alcune parti – come la scena della taverna nel primo atto –, svia sicuramente l’attenzione da altri momenti ben più drammatici – come gli scambi di effusioni durante il duetto Otello/Desdemona del terzo atto, o la parata macabra e lugubre che attraversa il palco simboleggiando la nera, più che verde, gelosia che attanaglia Otello – dove la musica di per sé è più che esplicativa. Insomma, a parte la bravura del gruppo di mimi, orpelli visivi inutili che nulla aggiungono alla storia o alla partitura. Come la stessa scelta del regista di fare svolgere il Duetto del primo atto tra Otello e Desdemona con i due che ammassano fantocci di cadaveri turchi per farne un materasso su cui trascorrere la notte d’amore. Uno dei punti nevralgici quindi della drammaturgia dell’opera, il momento in cui i due ricordano e si beano dell’inizio del loro amore, ridotto ad un asettica parentesi scenica, cui neanche l’intensa musica verdiana riesce a conferire l’atmosfera estatica – questo anche per la precisa, ma priva di slanci, conduzione di Renato Palumbo che ha fornito una lettura accademica della partitura – che invece avrebbe dovuto avere. Brockhaus gioca al limite del simbolismo interpretativo, mantenendo la sua idea di un regno – quello reale e quello del cuore di Otello – in devastazione, trasformando ad esempio il giardino di Desdemona e l’omaggio floreale che viene fatto alla sua bellezza e grazia, in un ospedale da campo con medievali crocerossine che recano valigette della Croce Rossa e feriti, moribondi, sedie a rotelle, lettini da campo, coperte di lana di memoria Royal British o US Force.

Brockhaus gioca al limite del simbolismo interpretativo, mantenendo la sua idea di un regno in devastazione,

In un tempo non tempo evidenziato dai costumi di Patricia Toffolutti che da un lato richiamano i ricchi tessuti e i broccati veneziani, ma dall’altro se ne discostano nella foggia, a volte quasi moderna. Ma veniamo al cast. Su tutti, contrariamente a quanto si può pensare, troneggia lo Jago di Giovanni Meoni, che può contare su mezzi vocali di un certo spessore drammatico. Mancava tuttavia quello scavo interpretativo del personaggio che sicuramente – se avesse avuto l’aiuto di Palumbo o dello stesso Brockhaus – lo avrebbe reso ancora più intenso, torreggiante sul tutto, proprio come il regista avrebbe del resto voluto. Poco vibrante, appassionata, La Desdemona di Julianna  di Giacomo, la cui voce tendenzialmente metallica, poco pastosa, anche se ampia, non è riuscita a cogliere le diverse sfumature vocali richieste dal personaggio, in particolare nella Canzone del Salce e nella stessa Ave Maria. L’Otello di Gustavo Porta ha in se tutti i peggiori luoghi comuni legati al personaggio e sembra quasi volere imitare sino allo stremo delle forze vocali la lezione di Del Monaco con gli slanci eccessivi, gli occhi roteanti, una voce stentorea che purtroppo non decolla nonostante lo sforzo. Completavano il cast Anna Malvasi (Emilia), Giuseppe Varano  (Cassio), Pietro Picone (Roderigo), Manrico Signorini (Lodovico), Maurizio Lo Piccolo (Montano) e Riccardo Schirò (Un Araldo). Otello resta in scena al Massimo sino al 2 marzo con replica domani.

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