Guerra in Ucraina, Putin spegne ogni speranza di pace: il gelo dopo i colloqui con Trump e il Papa
Il Cremlino respinge al mittente le aperture diplomatiche. “Kiev è terrorista, non si tratta con chi semina morte”. Zelensky: “Mosca vuole solo tempo per riarmarsi”
Papa Leone XIV, Vladimir Putin e Donald Trump
Il telefono di Vladimir Putin non ha mai squillato così tanto in una sola giornata. Due chiamate che avrebbero dovuto segnare una svolta – quella con Donald Trump e la storica prima conversazione con Papa Leone XIV – si sono trasformate invece nell’ennesima pietra tombale sulle speranze di pace in Ucraina.
Al termine di 75 minuti di colloquio con il presidente americano e di un dialogo senza precedenti con il Pontefice, lo zar del Cremlino ha infatti gelato ogni aspettativa: niente tregua immediata, nessun dialogo con “terroristi” e rappresaglie in arrivo per gli attacchi ucraini che hanno umiliato Mosca. È il giorno 1.197 di una guerra che sembra non avere fine. Le parole che escono dal palazzo del potere russo suonano come un requiem per la diplomazia internazionale.
Trump ci prova, Putin stoppa tutto
Putin, riferisce la Casa Bianca, “ha affermato con molta fermezza che dovrà rispondere al recente attacco agli aeroporti”. Un messaggio chiaro come un pugno nello stomaco: Mosca non ha alcuna intenzione di fermarsi, anzi.
Dal canto suo, il consigliere diplomatico del Cremlino, Yuri Ushakov, ha fornito la versione russa dei fatti con la consueta retorica di regime: Putin avrebbe spiegato a Trump che “Russia e Ucraina continueranno i negoziati dopo aver analizzato i rispettivi memorandum”. Ma subito dopo la doccia fredda: il leader russo ha ribadito la sua convinzione che “Kiev sia diventata un’organizzazione terroristica”. Come si può negoziare con chi viene marchiato come terrorista?
Il Papa tenta l’impossibile
Se la diplomazia laica ha fallito, forse quella spirituale poteva riuscire nell’impresa. Papa Leone XIV ha giocato la carta del dialogo religioso in quello che rappresenta il primo contatto telefonico tra Vaticano e Cremlino dall’inizio del suo pontificato. Un evento storico che tuttavia non ha prodotto i frutti sperati. Il Pontefice ha fatto “un appello affinché la Russia faccia un gesto che favorisca la pace”, sottolineando l’importanza del dialogo per realizzare “contatti positivi tra le parti e cercare soluzioni al conflitto”
Durante la conversazione si è discusso “della situazione umanitaria, della necessità di favorire gli aiuti dove necessario, degli sforzi continui per lo scambio dei prigionieri e del valore del lavoro che in questo senso svolge il Cardinale Zuppi”. Papa Leone ha anche fatto riferimento al Patriarca Kirill, “ringraziando per gli auguri ricevuti all’inizio del suo pontificato” e sottolineando come “i comuni valori cristiani possano essere una luce che aiuti a cercare la pace”.
Ma Putin, pur “esprimendo gratitudine” al Papa “per la disponibilità a fornire assistenza nella risoluzione della crisi ucraina”, ha ribadito le sue posizioni granitiche: l’interesse a raggiungere la pace “attraverso mezzi politici e diplomatici” esiste, ma solo dopo aver “eliminato le cause profonde” del conflitto. Una formula che nasconde l’ennesimo ultimatum mascherato da apertura.
L’affondo del Cremlino
Le parole più velenose Putin le ha riservate però all’intervento mattutino durante la riunione del governo russo. Un discorso che ha il sapore della dichiarazione di guerra totale, senza più filtri diplomatici.
Putin ha poi alzato ulteriormente il tiro, accusando l’Ucraina di sabotare deliberatamente ogni possibile percorso verso la pace: “Kiev non vuole la pace. Rifiuta non a sorpresa un cessate il fuoco per motivi umanitari per 2-3 giorni”. E poi l’affondo finale: qualsiasi tregua più lunga “verrebbe sfruttata da Kiev per una mobilitazione forzata, per il riarmo e per la preparazione di attacchi terroristici”.
È la prima volta dall’inizio del conflitto che Putin usa un linguaggio così estremo, equiparando de facto il governo ucraino a un’organizzazione terroristica. Una scelta lessicale che chiude ogni spazio di manovra diplomatica e legittima in anticipo qualsiasi tipo di rappresaglia.
Zelensky non ci sta
La risposta del presidente ucraino Volodymyr Zelensky non si è fatta attendere ed è stata altrettanto tagliente. “Le condizioni di pace presentate da Mosca sono ultimatum. Mosca sta conducendo colloqui solo per ritardare nuove sanzioni”, ha dichiarato il leader di Kiev, demolendo in poche parole l’impalcatura dei negoziati di Istanbul.
Zelensky, che evidentemente non si fida minimamente delle intenzioni russe, aveva tentato un ultimo, disperato rilancio diplomatico: un incontro diretto con Putin in sede neutra – Istanbul, Vaticano o Svizzera – preceduto da un cessate il fuoco. “Offriamo ai russi un cessate il fuoco finché i leader non si incontreranno. Per quanto mi riguarda siamo pronti a incontrarci immediatamente”, aveva proposto.
Il presidente ucraino, dal canto suo, ha accusato Mosca di utilizzare i negoziati come una mera cortina fumogena: altri round di colloqui a livello tecnico “non hanno senso”, ha dichiarato, evidenziando come l’unico risultato concreto dei negoziati di Istanbul sia stato l’accordo per lo scambio di 500 prigionieri per parte nel fine settimana.
L’escalation militare: 500 droni a notte
Mentre la diplomazia naufraga, sul terreno si profilano nuove, inquietanti escalation. Secondo fonti dell’intelligence militare ucraina citate dal Kyiv Independent, la Russia si sta preparando a scatenare un inferno di fuoco e acciaio: le forze del Cremlino saranno presto in grado di lanciare fino a 500 droni a lungo raggio ogni notte. È la risposta militare di Putin all’umiliazione subita domenica scorsa con l’Operazione Ragnatela, l’attacco ucraino che ha distrutto decine di bombardieri russi in quattro basi aeree diverse. Un’operazione di intelligence che ha colpito al cuore la potenza aerea russa e che Putin non può lasciare impunita.
Gli Usa suonano l’allarme Nato
Di fronte a questo scenario esplosivo, Washington ha deciso di alzare il livello di allerta. Gli Stati Uniti hanno avvertito la NATO di prepararsi alle “prossime mosse” di Putin, con alcuni analisti che non escludono nemmeno l’opzione nucleare tra le rappresaglie russe.
L’unico spiraglio: lo scambio di prigionieri
In questo scenario apocalittico, l’unico barlume di umanità che resiste è l’accordo per lo scambio di prigionieri di guerra. Ucraina e Russia sono pronte a scambiare 500 prigionieri per parte nel fine settimana, in quello che dovrebbe essere il preludio a un’operazione più ampia che coinvolgerà complessivamente 1.200 detenuti per parte.
È l’unico punto di intesa raggiunto nei negoziati di Istanbul, l’unica dimostrazione che, nonostante tutto, un filo di dialogo tecnico continua a esistere. Ma è un filo sottilissimo, che rischia di spezzarsi da un momento all’altro sotto il peso dell’escalation militare.
Il vicolo cieco della diplomazia
Così, dopo una giornata che doveva rappresentare la svolta diplomatica, ci ritroviamo più lontani che mai dalla pace. La finestra di dialogo aperta da Donald Trump sembra già essersi chiusa con un portone blindato, mentre gli appelli del Papa si perdono nel vento delle steppe russe. Putin ha scelto la strada della confrontation totale, etichettando l’Ucraina come organizzazione terroristica e preparando una risposta militare che promette di essere devastante. Zelensky, dal canto suo, non si fida e accusa Mosca di prendere tempo solo per riarmarsi e preparare nuovi attacchi.
In mezzo, una popolazione civile che continua a pagare il prezzo più alto di questa guerra senza fine, mentre la comunità internazionale assiste impotente al fallimento di ogni tentativo di mediazione. La guerra in Ucraina giunge così al giorno 1.197 senza prospettive immediate di pace, anzi con la concreta possibilità di una nuova, devastante escalation.
I numeri parlano chiaro: 500 droni a notte, 70 velivoli prodotti al giorno, 15 nuove basi di lancio. È la matematica della guerra che prende il sopravvento sulla grammatica della diplomazia. E mentre il mondo trattiene il fiato, Putin prepara le sue “prossime mosse” in un gioco di scacchi dove l’unica certezza è che, ancora una volta, a pagare il prezzo più alto saranno i civili innocenti.