Teatro Massimo di Palermo, con Falstaff il mondo è una burla

ph © rosellina garbo 2019
27 febbraio 2020

E’ una di quelle un po’ malmesse, la locanda dove alloggia Sir John Falstaff, i suoi averi del resto sono un po’ a lumicino – colpa di quei furfanti di Pistola e Bardolfo che gli svuotano la borsa tra una bevuta, una mangiata, e un’altra ancora – e non può che permettersi che l’essenziale: un letto – grande abbastanza da sorreggere la sua mole – una poltrona sgangherata un comodino orologio a troneggiare sul letto – a mo’ di spada di Damocle: il tempo passa inesorabile – insieme ad abiti dimessi, logori, anche se di foggia nobiliare. La sua necessità di continuare a vivere bene e in un adeguato lusso risollevando le sue sorti lo spinge ad aguzzare il suo ingegno sbruffone e rispolverare il suo “fascino” libertino ma elegante e tentare il corteggiamento di due delle più ricche – e avvenenti – donne del circondario: Alice e Meg. Falsatff non tiene però in conto – errore marchiano e tipicamente maschile – l’arguzia con cui le due sventano il suo piano. Luca Ronconi nella sua regia del 2013 dell’ultima opera verdiana per il Teatro Petruzzelli di Bari – ripresa oggi per il Teatro Massimo di Palermo da Marisa Bianchi – rende perfettamente scenicamente i due campi della sottile “battaglia” tra i due sessi.

Il vuoto trasandato, incurante, sporco anche, che caratterizza le scene in cui compare Falstaff, si scontra con il vuoto/ricco di ingranaggi – i bicicli e tricicli insieme a macchine della produzione contadina, marchingegni vari così cari alla sfera poetica ronconiana – e ingegni in cui appare il quartetto di donne – Alice, Meg, Nannetta e Mrs Quickly – pronte a smascherare il fedifrago – già prima di iniziare – “amante”. Attorno a loro gravita una torma di quasi incolore personaggi anche se ognuno di essi ha una sua specifica funzione: ma sono uomini e non per niente, come lo stesso Falstaff, alla fine, resteranno anche loro “gabbati”. Ad accentuare il vuoto – dell’anima, se si vuole anche – sono gli spazi segnati, come nella migliore tradizione shakespeariana e della stessa Commedia dell’Arte, da grandi teloni/quinte/canovacci. Dopo le grandi scenografie, le imperanti impalcature, con Falstaff è come se Ronconi abbia voluto ritornare alle idee minimaliste originarie, quelle dei primi studi, dove si contendeva il trono della regia italiana con un altro grande, Giorgio Shtreler, cui, in un certo senso questo allestimento di Falstaff riconduce. Questo suo ritorno alle origini però accentua forse il carattere tragicomico del personaggio Falstaff, così stupendamente disegnato dalla penna di Shakespeare, ma altrettanto reso da Verdi e Boito, nella sua più intrinseca personalità, ma anche colpendo in quello spirito che forse ha animato Verdi nel comporre questo suo ultimo capolavoro, il suo testamento, giunto dopo anni di inattività, quasi strappato da quella terra cui il compositore credeva di essere attaccato, più di quella musica che lo aveva reso schiavo e cui alla fine inevitabilmente era tornato, forse perché deluso da quella terra che cambiava così come cambiavano i tempi e le persone.

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E’ come se Verdi stesso pronunciasse quelle parole, “Mondo ladro… Mondo rubaldo”, che Falstaff pronuncia nel terzo atto, nella sua delusa constatazione di essere invecchiato e di non far parte di “Quel” mondo, salvo poi riprendersi alla lettera di Alice che lo invita ad un nuovo convegno. Ed è qui la genialità… inutile piangersi addosso, inutile pensare alle delusioni, perché… quello stesso mondo non è che “… una burla”. E tutti finiremo “Gabbati!”. Ma da chi? Da noi stessi o, da qualcun altro…? Da Dio? Dalla Morte? La chiusura in Do Maggiore – tonalità notoriamente allegra – racchiude una risata aperta, o una risata ironica, sardonica, un po’ alla Iago alla conclusione della sua aria “La morte è il nulla… E vecchia fola il Ciel”. La coppia Boito/Verdi – come del resto già in Otello – innescano una bomba non indifferente, e la fanno esplodere, richiamando la gente ad avere la reale percezione delle cose. Falstaff quindi è il capolavoro verdiano in cui comicità e ironia non disdegnano di mescolarsi ad amarezza, dramma, in una visione del mondo estremamente realistico. Tutto ciò viene ben colto dalla regia firmata da Ronconi – che nel suo borgo rurale di inizio Novecento immette tutte le contraddizioni, a cominciare dall’identità dell’uomo schiacciato dal progresso, le paure e le sue dicotomie – anche se in alcuni momenti della ripresa palermitana si fatica a vederne l’efficacia, proprio perché di ripresa si tratta e non c’è più l’artefice a spiegarne le sottigliezze a guidare gli intrepreti attraverso i meandri della sua specificità.

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Marina Bianchi sembra limitarsi al gestire i movimenti in scena lasciando alle singole abilità di ogni interpreti la capacità di affrontare i personaggi e disegnarne le caratteristiche. Due i cast – come ormai abitualmente accade – fatti scendere in campo dal Massimo di Palermo. Due cast giovani, frizzanti, perfettamente amalgamati e complementari – mescolandoli forse si sarebbe avuto il cast perfetto – che hanno reso al massimo pur non sotto una efficace guida. Il primo, quasi tutto palermitano – se si escludono pochi – era guidato da Sir John Falstaff in persona. Nicola Alaimo infatti ha ormai un rapporto talmente simbiotico con il personaggio che si può dire – con le dovute eccezioni che lui stesso ci ha spigato in una intervista di qualche giorno fa – sia lui stesso Falstaff. Nicola Alaimo che nella sua compiutezza di interprete incarna, sia vocalmente che dal punto di vista attoriale, la complessità di questo personaggio riuscendo a coglierne ora l’aspetto macchiettistico, ora l’aspetto tragico, grottesco, spingendo, ma senza mai forzare sulle sue incongruenze. La sua voce stigmatizza alcuni dei momenti clou del pensiero Falstaffiano, impennandosi, affievolendosi, gonfiandosi, seguendo quelle impossibili dinamiche che Verdi ha disseminato qua e là proprio per sottolineare quella “parola cantata”, quel “recitar cantando” cui era particolarmente attento.

Di contro a Falstaff di Alaimo il quartetto femminile composto da Roberta Mantegna (Alice), Jessica Nuccio (Nannetta), Marianna Pizzolato (Mrs Quickly) e Jurgita Adamonyte (Meg). Forse questo, insieme allo stesso quartetto maschile – Giorgio Misseri (Fenton), Gabriele Sagona (Pistola), Saverio Fiore (Bardolfo), Carlo Bosi (Cajus) – ha sofferto di mancanza di guida registica e a volte anche da parte del direttore Daniel Oren – in qualche concertato ad esempio – nonostante tutti, e tutte, ben presenti vocalmente nelle loro rispettive parti. Decisamente più ciarliere e allegre sono apparse le quattro Comari del secondo cast che vedeva, oltre la Meg di Jurgita Adamonyte, Angela Nisi (Alice), Giuliana Gianfaldoni (Nanetta) e Adriana Di Paola (Mrs Quickly), apparse più a loro agio con lo spirito burlesco, ironico e smaliziato del gruppo. Dinamico e a suo agio anche il Fenton di Giovanni Sala, ben assortito con la Nannetta di Giuliana Gianfaldoni. Sulla stessa linea i Ford di Alessandro Luongo e Luca Grassi, baritoni dal timbro vocale elegante e incisivo hanno perfettamente definito i dubbi e le gelosie del loro personaggio eccellendo entrambi nel monologo “delle corna” del secondo atto. Angel Odena è il Falstaff del secondo cast, ma assolutamente non secondo, anche se più attento al canto che alla recitazione. Anche lui pecca di guida.

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La sua voce bruna, quasi da basso acuto, più avrebbe potuto giocare con le sottigliezze vocali, musicali, ma anche del testo. Il suo Falstaff è sicuramente più comico che tragico. Anche il volere trovare una linea di canto là dove invece la voce dovrebbe spezzarsi e seguire le marcature, il ritmo parlato, lo porta a dare una eleganza verbale che non corrisponde a quella testuale e visiva. Pur tuttavia la sua interpretazione nel complesso risulta più efficace e convincente. Questo anche grazie al supporto di Daniel Oren che torna ancora una volta a Palermo alla guida dell’Orchestra del Teatro Massimo. Una orchestra che con lui torna a certe sonorità bacchiche – oseremmo dire – ridondanti, piene. Oren mostra la pienezza fisica di Falstaff in un suono ricco, a volte un po’ troppo forte o affrettato – da qui le incertezze o gli scollamenti, tra buca e palco in alcuni insiemi, quartetti e concertati – ma brillante. Il tocco, lo slancio, di Oren cui l’Orchestra del Massimo è ben abituata. Un Falstaff quindi gioioso nella sua lettura, con meno spigoli di quanti non ne presenti la partitura, tuto concentrato sull’esplosione finale, così tanto per dire: “Tutto il mondo è Burla” e “Tutti Gabbati”. Sino a stasera. Ultimo spettacolo.

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