L’abolizione del Senato è una battaglia di facile presa per chi vuole ottenere consensi immediati. Ma i rischi del fallimento sono dietro l’angolo
Sono Pietro Grasso e voglio ridimensionare il Senato anch’io. L’abolizione del Senato è una battaglia di facile presa per chi vuole ottenere consensi immediati. Ma per chi si è battuto con forza per arrivare al risultato, la mobilitazione contro la seconda Camera si è rivelata un boomerang. La prima contraddizione di questo impegno è che a volere l’abolizione del Senato è un fiorentino: il premier Matteo Renzi. È bene ricordare che il Granducato di Toscana nasce proprio grazie al voto del Senato dei Quarantotto il 27 aprile 1532. Quella deliberazione permette la creazione del Ducato di Firenze e la nomina di Alessandro de’ Medici a duca di Firenze.
Da quel momento si pongono le basi per la fase di transizione che accompagna la nascita della Repubblica fiorentina verso il Granducato. Ma che fine ha fatto chi ha cercato di affossare il Senato? Nel 1857 il Messico decide di abolire il Senato, ma nel 1874 la Camera alta viene ricostituita a furor di popolo. Da quel momento, grazie alla guida di Porfirio Diaz, il paese conosce un lungo periodo di stabilità. Nel 1919 sono i fasci di combattimento di Benito Mussolini a mettere nel loro programma l’abolizione del Senato, ma la proposta non viene messa in atto dal futuro Duce quando, nel 1922, arriva al potere. Ma a fare compagnia a Mussolini ci pensa il Partito Comunista Italiano all’inizio degli anni ’80, quando si comincia a parlare di riforme. Nel dicembre 1981 il Pci presenta “Materiali e proposte per un programma di politica economico-sociale e di governo della economia”, nel quale chiede l’abolizione del Senato e la nascita della Camera delle Regioni. Nessuno prende in considerazione l’iniziativa comunista.
Lo scorso 5 ottobre è il partito centrista Fine Gael, legato all’Internazionale democratica cristiana, a volere il referendum per abolire la Camera Alta. La battaglia finisce male per il partito “della legge e dell’ordine” che si batte contro l’evasione fiscale e che pone la “questione morale” irlandese. Il referendum per l’abolizione del Senato viene sconfitto con un ristretto margine, appena 42.500 voti. Il 51,8% degli irlandesi vota per il mantenimento del Senato. Ma chi è che sostiene con forza l’abolizione del Senato e chi è convinto di far bene alla nostra democrazia? Una mappatura chiara di questo partito non c’è per la semplice ragione che i politici che propongono la fine del bicameralismo perfetto non è detto che propongano l’abolizione del Senato. Ad esempio, un uomo avveduto come Giulio Andreotti era contro la riforma. Sul “Gazzettino” del 6 giugno del 2006 spiega che così “si concede troppo potere al Premier”. Il politologo Roberto D’Alimonte è invece il leader della fazione opposta. II 19 maggio 2013 spiega sul Sole 24 Ore che “in questo momento c’è una cosa da fare subito: l’abolizione del Senato”. E aggiunge che la riforma “si può fare in pochi mesi” perché questa scelta “è indipendente dalla definizione di forma del governo”. Lorenzo Dellai del gruppo parlamentare “Per l’Italia” sostiene su “l’Unità” dell’11 dicembre 2013 che “va superato il bicameralismo e va fatta la riforma elettorale”.
Tuttavia, è bene ricordare che di questo partito che si batte per ridimensionare la Camera alta ha fatto anche parte l’attuale presidente del Senato. Lo scorso 2 gennaio è stato proprio il quotidiano “l’Unità” a pubblicare un resoconto di un’intervista concessa da Grasso alla trasmissione radiofonica “Zapping 2.0” nel quale la seconda carica dello Stato sostiene che “l’abolizione del bicameralismo perfetto è un punto delicato, ma ineludibile. Occorrono delle modifiche per rendere l’iter legislativo molto più veloce”. E aggiunge: “Ci sono delle proposte per cui il Senato diventa una specie di dopolavoro per sindaci e governatori, io penso invece che il 30% del Senato può restare elettivo”. Nella compagnia che si batte contro il bicameralismo perfetto c’è anche Luciano Violante che si pronuncia contro la doppia lettura delle leggi su “l’Unità” del 5 marzo 2007. Un altro teorico della demolizione del Senato è Dario Franceschini. Il 6 dicembre 2011, propone su “Repubblica” la fine del bicameralismo e la riforma elettorale, aggiungendo che queste riforme “si possono fare in 18 mesi”. Ma nei mesi successivi non si muove una foglia.